martedì 5 febbraio 2008

VITE E MORTE DELLE STELLE-PRIMA PARTE

VITA E MORTE DELLE STELLE



1. SULLA PERFEZIONE E IMMUTABILITA' DEI CIELI

I filosofi dell'antica Grecia ritenevano che i cieli fossero perfetti, eterni e incorruttibili e che pertanto nessun mutamento potesse avvenire al loro interno. Eventuali cambiamenti erano ammissibili solo al di sotto del primo cielo (quello della Luna), quindi, in pratica, solo sulla Terra o nella sue immediate vicinanze. Questo convincimento traeva origine dal senso comune (una cosa che in verità non ha mai aiutato molto a capire come funziona il mondo), in quanto si era notato che nel breve lasso di tempo della vita di un uomo, o anche di alcune generazioni, non si verificavano effettivamente in cielo cambiamenti di sorta, mentre sulla Terra, nel frattempo, accadevano eventi fisici e meteorologici di varia natura ed intensità.

In realtà, alcuni oggetti strani e dall'aspetto minaccioso ogni tanto solcavano il cielo, come fossero fantasmi, trascinandosi dietro lunghe code: erano le comete, che venivano avvistate con terrore perché considerate presagio di sventure. Esse, però, affinché fosse salvaguardata l'integrità dei cieli, erano ritenute oggetti presenti nell'atmosfera terrestre, a sua volta corrotta ed instabile.

Bisognerà aspettare fino al 1577 per rendersi conto che le comete sono oggetti sistemati nei cieli, a grande distanza dalla Terra. In quell'anno, infatti, l'astronomo danese Tycho Brahe, pur senza l'ausilio di strumenti ottici (che non erano ancora stati inventati), tentò di misurare la parallasse di una cometa, ma non vi riuscì. Da ciò dedusse che la cometa doveva trovarsi più lontana della Luna della quale era invece possibile misurare la parallasse.

Che cosa sia la parallasse è presto detto. Si ponga il pollice davanti agli occhi e lo si guardi prima con l'occhio destro, tenendo chiuso il sinistro e poi con l'occhio sinistro, tenendo chiuso il destro. Lo si vedrà spostarsi, sullo sfondo della parete lontana, in modo tanto più evidente quanto più lo si sarà posto vicino agli occhi. Questo spostamento apparente del dito si chiama parallasse e si verifica perché cambia l’angolazione sotto la quale si osserva il dito. Lo stesso fenomeno si nota quando si guarda la Luna da due punti della Terra distanti fra loro: la si vede spostarsi, sullo sfondo delle stelle fisse, perché il nostro satellite naturale è relativamente vicino mentre, se nello stesso modo si guardasse un astro più lontano, per esempio la Stella Polare, non si noterebbe spostamento alcuno.

L'idea dell'integrità dei cieli si andava quindi finalmente incrinando. In verità, si erano già verificati in passato alcuni fenomeni che avrebbero dovuto far dubitare della perfezione dei cieli, ma stranamente nessuno li notò. Vi era stata, ad esempio, la comparsa improvvisa di stelle luminosissime tanto da poter essere viste perfino in pieno giorno, oppure la presenza di macchie sulla superficie del Sole sicuramente osservabili ad occhio nudo, ma ciò non suscitò particolare interesse fra la gente. Come mai nessuno segnalò questi fenomeni?

Molto probabilmente, condizionati dal pregiudizio dell'immutabilità e dell’incorruttibilità dei cieli, gli antichi filosofi greci, ma anche tutti coloro che vissero durante il medioevo, non fecero caso al verificarsi di nuovi fenomeni anche perché, come diceva Goethe, normalmente le persone vedono solo ciò che già conoscono.

Nel 1054, nella costellazione del Toro, apparve improvvisamente una stella luminosissima, tanto da superare in splendore la stessa Venere. L'astro venne studiato attentamente dai cinesi e dai giapponesi che ne annotarono con scrupolo la posizione e le altre caratteristiche osservabili. Qui da noi invece, inspiegabilmente, nessuno lo vide.

Circa cinquecento anni più tardi, precisamente nel 1572, si accese in cielo, nella costellazione di Cassiopea, un'altra nuova stella, luminosa quanto quella apparsa nel 1054, ma questa volta venne osservata e registrata ovunque, anche in occidente. Qui da noi, anzi, il fenomeno destò tale interesse che l'astronomo danese Tycho Brahe, scrisse anche un libro sull'argomento intitolato «De nova stella». Dal titolo di quel libro, in seguito, ogni nuova stella che comparve in cielo venne chiamata nova. In verità, sebbene il termine latino nova significhi «nuova» non si tratta di una nuova stella, ma piuttosto, come vedremo meglio in seguito, della morte di una vecchia avvenuta in seguito ad una spettacolare esplosione.

Una terza nova, molto splendente, apparve pochi anni più tardi, nel 1604, nella costellazione di Ofiuco (o del Serpente) e venne descritta, in questo caso, dal fisico tedesco Keplero (Johannes Kepler).

Da quei tempi, e fino ad oggi, vennero osservate altre novae, ma non di proporzioni così straordinarie come quelle del 1054, del 1572 e del 1604. A queste ultime, che erano effettivamente di luminosità eccezionale, venne imposto il nome di supernovae, riservando quello di novae ai casi meno appariscenti.

Quindi, come si è detto, dal 1604 ad oggi non è più apparsa, nella nostra Galassia, alcuna supernova e di ciò ci si rammarica, perché dai tempi di Galilei l'uomo costruì e perfezionò per l'osservazione del cielo numerosi strumenti, che avrebbero consentito di studiare questi fenomeni in modo molto preciso e dettagliato. Tutte le supernovae apparse in passato furono invece osservate solo ad occhio nudo non essendo stato ancora inventato alcuno strumento ottico: il cannocchiale venne utilizzato da Galilei, per la prima volta, nel 1609, cinque anni dopo l'apparizione dell'ultima supernova.



2. DI CHE COSA SONO FATTE LE STELLE?

Come abbiamo visto, ci sono voluti più di duemila anni per capire che anche nei cieli avvengono dei mutamenti, ma ci vorranno ancora alcuni secoli di osservazioni e di studio per conoscere la composizione dei corpi celesti. E' infatti solo da poco più di cent'anni che sappiamo con esattezza di che cosa siano fatte le stelle ed è appena da una cinquantina d'anni che abbiamo scoperto quali sono le loro fonti di energia.

Fino alla metà dell'Ottocento l'uomo era convinto che le stelle fossero costituite di un materiale speciale, la cosiddetta «quinta essenza» (le altre quattro erano aria, acqua, terra e fuoco) cui dettero il nome di etere; questa sostanza doveva avere la proprietà di brillare in eterno senza logorarsi. La cosa oggi appare inconcepibile, ma bisogna tenere presente che solo nell'ultimo secolo si è capito finalmente che le stelle, essendo fatte della stessa materia di cui sono costituiti gli oggetti terrestri, si dovevano consumare e deteriorare nel tempo, fino a spegnersi completamente.

L'unico mezzo attraverso il quale possiamo avere informazioni relativamente alle proprietà chimiche e fisiche delle stelle è la luce che queste ci inviano. Lo strumento che ha consentito di captare, analizzare e misurare la luce delle stelle è lo spettroscopio, un dispositivo che trae origine da una osservazione compiuta da Isaac Newton verso la fine del 1600.

Il grande fisico inglese fece passare la luce del Sole attraverso un prisma di vetro osservando il formarsi, su di uno schermo, di una sequenza di colori (gli stessi dell'arcobaleno). A questa striscia di colori venne dato il nome di «spettro» da un termine latino che significa apparizione, miraggio, con allusione al fatto che la luce era sempre la stessa ma, per effetto del prisma trasparente attraverso il quale veniva fatta passare, appariva diversa, ovvero scomposta in vari colori.

Nel 1814, a Vienna, un ottico di origine tedesca, Joseph von Fraunhofer, ponendo una sottile fenditura davanti al prisma attraverso il quale passava la luce, osservò il formarsi di una serie di righe nere che solcavano lo spettro solare. Egli ne contò più di 700, però non seppe dare giustificazione della loro presenza. Stranamente, nonostante l'incertezza sul significato delle righe dello spettro solare, la tecnica spettroscopica fu tuttavia immediatamente applicata ai pianeti e alle stelle più brillanti, e ne risultarono analogie e differenze. Da queste osservazioni si poté trarre il convincimento che tutti i corpi celesti fossero oggetti con caratteristiche spettroscopiche comparabili e quindi, presumibilmente, fatti della stessa materia, anche se lo stato fisico e la temperatura potevano essere diverse.

Verso la fine del secolo XIX si riuscì finalmente a capire che cosa significavano quelle righe scure all'interno dello spettro colorato delle stelle. L'arcano venne svelato da due fisici tedeschi, Gustav Kirchhoff e Robert Bunsen, i quali osservarono che riscaldando un gas di sodio si otteneva una fiamma di colore giallo la cui luce, fatta passare attraverso il solito prisma di vetro, produceva uno spettro nero solcato da due righe gialle molto vicine fra loro. Confrontando quindi lo spettro del Sole con quello ottenuto dai vapori di sodio, Kirchhoff e Bunsen poterono notare la coincidenza fra le righe colorate dello spettro del sodio incandescente e due analoghe, ma scure, presenti sullo spettro del Sole. In altre parole, le righe brillanti, o in emissione, del gas caldo di sodio coincidevano con quelle nere o in assorbimento dello spettro del Sole. Da ciò i due scienziati tedeschi dedussero che sul Sole vi doveva essere del sodio.

Successivamente vennero osservate, sullo spettro solare, righe corrispondenti ad altri elementi chimici presenti sulla Terra. Queste osservazioni convinsero gli scienziati che il Sole doveva essere un corpo molto caldo avvolto da vapori relativamente più freddi. La massa interna molto calda e molto densa emetteva una radiazione luminosa continua, cioè comprendente tutti i colori dello spettro (come si era osservato in laboratorio per i corpi incandescenti solidi, liquidi e anche gassosi ma molto compressi), mentre i gas esterni, meno caldi e più rarefatti, assorbivano alcune radiazioni producendo le righe nere sullo spettro solare. Queste righe erano determinate dagli atomi degli elementi presenti nei gas dell'atmosfera solare.

Ulteriori osservazioni spettroscopiche, condotte sulle stelle, evidenziavano la presenza degli stessi elementi chimici esistenti sul Sole. Era ormai chiaro a tutti che la materia doveva essere la stessa ovunque e che molti degli elementi scoperti dai chimici sulla Terra erano presenti anche sulle stelle. A conferma di ciò vi fu il riconoscimento di alcuni elementi chimici sulle stelle prima ancora che gli stessi venissero osservati sulla Terra. L'esempio più classico è quello dell'elio, un elemento osservato nello spettro solare nel 1868, trent’anni prima che venisse isolato sulla Terra. Il nome di elio (dal greco «helios» che significa Sole), assegnato a questo elemento, è legato proprio al luogo del suo primo ritrovamento.

Alla fine dell’Ottocento l'uomo era riuscito finalmente a capire quale fosse la composizione chimica delle stelle lontane (e naturalmente del Sole) senza doversi recare sul posto. La cosa fu molto sorprendente anche perché pochi anni prima, il filosofo francese Auguste Comte, padre del positivismo, affermava: "Gli uomini potranno misurare con sempre maggiore precisione la posizione e le distanze degli astri, ma mai riusciranno a sapere di che cosa sono fatti". Anche per la scienza dovrebbe valere quello che si usa dire in politica: "Mai dire mai".



3. L'ENERGIA DEL SOLE E L'ETA' DELLA TERRA

Il problema relativo all'energia prodotta dal Sole (e dalle altre stelle) venne affrontato a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo. A quel tempo, sulla base del principio dell'uniformismo di Hutton, si era tentato di determinare l'età della Terra.

James Hutton, un geologo scozzese vissuto nella seconda metà del 1700, ipotizzò che la storia passata del nostro pianeta potesse essere spiegata in base a ciò che accadeva al presente. Questo è per l'appunto il contenuto del cosiddetto «principio dell'uniformismo» (o dell'attualismo, come verrà in seguito chiamato da Charles Lyell, altro grande geologo di estrazione britannica). Si tentò, quindi, sulla base di questo principio, di calcolare l'età della Terra attraverso la stima del tempo necessario allo svolgi­mento di alcuni fenomeni naturali che presumibilmente si erano realiz­zati con lo stesso ritmo anche nel passato.

Misurando ad esempio la velocità di accumulo di sabbie e detriti sul fondo di bacini lacustri o di lagune, si riuscì a stimare l'età di strati di rocce sedimentarie, di notevole potenza (spessore), formate da quel tipo di materiali. Questo metodo non era molto preciso perché l'erosione, la dislocazione degli strati rocciosi e la deformazione degli stessi, modificando nel tempo la disposizione originaria del deposito, avrebbero potuto falsare i risultati. Tuttavia, nonostante le difficoltà incontrate nell’applicazione di queste tecniche di misura, si arrivò ugualmente a capire che la Terra non era molto giovane come si era sempre pensato, ma avrebbe dovuto avere un'età di almeno qualche centinaio di milioni di anni.

Si tentò anche di misurare l'età del nostro pianeta attraverso la stima del tasso di accumulo di sali nel mare partendo dal presupposto che all'inizio i mari stessi fossero formati di acqua dolce e che i sali vi fossero stati portati successivamente dai fiumi. Si pervenne quindi al risultato che il tempo necessario affinché i fiumi potessero portare al mare tutti i sali attualmente presenti (35 grammi per ogni litro di acqua) sarebbe stato di un miliardo di anni.

Questi tempi così lunghi della vita della Terra erano favorevolmente accolti dai biologi i quali, nella seconda metà dell'Ottocento, cercavano di ricostruire le tappe della lenta evoluzione degli organismi viventi a partire dalle prime forme unicellulari. Ma tempi così lunghi non erano altrettanto graditi dai fisici i quali si chiedevano attraverso quali meccanismi il Sole avrebbe potuto produrre tanta energia da garantire alla Terra un flusso così intenso e costante di calore e di luce per milioni e milioni di anni.

Il Sole invia sulla Terra ingentissime quantità di energia, ma quella che in effetti produce e diffonde tutto intorno nello spazio è un miliardo di volte superiore alla parte che investe il nostro pianeta. Per avere un'idea dell'enorme quantità di energia prodotta dal Sole basterebbe notare che in una frazione di secondo esso emette complessivamente più energia di quella che il genere umano ha utilizzato in tutta la sua storia. In altro modo si potrebbe dire che se si riuscisse a catturare la porzione di energia che il Sole invia sulla Terra in un solo secondo questa sarebbe sufficiente a risolvere definitivamente il problema energetico offrendo ad ogni abitante del nostro pianeta la possibilità di consumare giornalmente quella quantità di energia che oggi è disponibile solo per una minoranza privilegiata.

Da dove quindi il Sole potrebbe trarre energia in così grande quantità e per tempi tanto lunghi? Verso la metà dell'Ottocento, il fisico tedesco Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz, uno dei padri della legge della conservazione dell'energia, e il collega britannico William Thomson (divenuto poi lord Kelvin) calcolarono che il Sole non avrebbe mai potuto produrre energia attraverso un normale processo di combustione. La nostra stella, si sapeva, è molto grande, ma anche se fosse fatta interamente di carbone o di qualche altro combustibile (petrolio, legno), non avrebbe potuto bruciare per tempi molto lunghi. Fatti i conti, si comprese che se la luce e il calore dell'astro che ci illumina e ci riscalda fossero prodotti interamente da combustione di carbone esso si sarebbe ridotto in cenere in meno di mille anni. E nemmeno prendendo in considerazione la forma più energetica di combustione chimica che si conosca, ossia la reazione fra idrogeno e ossigeno che porta alla formazione di acqua, il Sole avrebbe potuto sviluppare energia per un tempo superiore a 3.000 anni. Ma il Sole vive da molti più anni.

Scartata quindi l'idea che il Sole potesse splendere in conseguenza di processi chimici, Helmholtz e lord Kelvin avanzarono l'ipotesi che potesse farlo in seguito alla contrazione del suo volume. Il Sole è formato di gas e i gas, come si sa, contraendosi, si riscaldano. Esso, pertanto, sotto l'effetto della gravità, avrebbe potuto ridurre le sue dimensioni a partire da una nebulosa molto estesa che, diminuendo il suo diametro di solo una cinquantina di metri all'anno, av­rebbe potuto dar ragione dell'energia che emana.

Al ritmo di cinquanta metri all'anno, il nostro Sole si sarebbe rimpicciolito di un centinaio di kilometri in 2000 anni e nessuno si sarebbe accorto (nemmeno con gli strumenti attualmente a disposizione) di questa riduzione delle sue dimensioni. Andando però molto più indietro nel tempo si arriverebbe, in alcuni milioni di anni, a dover immaginare al posto del Sole, una nebulosa di volume enorme, addirittura più grande dell'orbita terrestre. E' evidente che un Sole primitivo di dimensioni enormi, in continua contrazione, non sarebbe conciliabile con un ritmo di emissione di energia costante come indicano invece alcuni fossili relativi ad organismi che per centinaia di milioni di anni non hanno cambiato sembianze. Sappiamo, ad esempio, che la Lingula anatina, un Brachiopode che vive attualmente nell'Oceano Indiano e nel Pacifico, e di cui è facile reperire i fossili, ha conservato quasi inalterata la sua forma dal Siluriano ad oggi, cioè per quasi 400 milioni di anni. Questa è una prova convincente (ma non l’unica) del fatto che l'ambiente fisico sulla Terra è rimasto pressoché costante per centinaia di milioni di anni, cosa che sarebbe stata impossibile se il Sole avesse subito variazioni di grandezza come quelle ipotizzate in precedenza.

Verso la fine dell'Ottocento gli scienziati si trovavano quindi divisi sul problema relativo all'età della Terra. I geologi erano convinti che la Terra esistesse da tempi molto lunghi e che fosse rimasta più o meno con le stesse caratteristiche per centinaia di milioni di anni e forse addirittura per un miliardo, mentre dall’altra parte gli astronomi, sulla base degli studi compiuti sul Sole, erano persuasi che la Terra non potesse esistere da più di alcuni milioni di anni.



4. LA SCOPERTA DELLA RADIOATTIVITA'

Mentre si dibatteva sull'età della Terra e sulla fonte dell'energia solare, si ebbe la scoperta di un fenomeno fisico che avrebbe consentito l'ingresso dell'astronomia nella sua fase più moderna e, nel contempo, la spiegazione della produzione dell'energia da parte del Sole e delle altre stelle. Si tratta della scoperta della radioattività, avvenuta casualmente nel 1896, ad opera del fisico francese Antoine-Henri Becquerel.

Becquerel, a quel tempo, si trovava a Parigi ed era impegnato, insieme con altri fisici, nello studio del fenomeno della fluorescenza. Si sapeva che i raggi catodici, generati nei cosiddetti «tubi di scarica» (tubi di vetro all’interno dei quali veniva azionata una scarica elettrica ad elevato potenziale), rendevano fluorescenti le pareti di vetro dei tubi stessi quando dal loro interno si sottraeva l'aria per mezzo di una pompa aspirante. Era stato anche osservato che il vetro, reso fluorescente dai raggi catodici, generava, a sua volta, delle radiazioni che rendevano fluorescenti dei sali di platinocianuro di bario, posti all'esterno.

Il primo che notò queste radiazioni fu il fisico tedesco Wilhelm Konrad Roentgen, il quale le chiamò raggi X per l'azione misteriosa che mostravano. Egli osservò infatti che questi strani raggi erano in grado di penetrare molte sostanze opache come la gomma, la carta e perfino il corpo umano, al cui interno evidenziavano le ossa. I raggi X riuscivano anche ad impressionare una lastra fotografica senza che venisse preventivamente tolta dal suo involucro protettivo.

Becquerel aveva scoperto che alcuni minerali di uranio, esposti al Sole, diventavano fluorescenti e pertanto pensò che avrebbero potuto emettere anch'essi raggi X o radiazioni simili. Egli allora, dopo aver esposto alla luce del Sole i minerali di uranio, li poneva su una lastra fotografica protetta dall'involucro di carta nera, per vedere se riuscivano ad impressionarla. E in effetti, quando andava a sviluppare la lastra, vi trovava l'impronta scura del minerale col quale era stata a contatto.

Avvenne però che in una giornata di cattivo tempo, Becquerel non potendo continuare gli esperimenti, riponesse ogni cosa nel cassetto in attesa che su Parigi tornasse il Sole. Quando, successivamente, il fisico francese andò ad utilizzare le lastre fotografiche che aveva custodito nel tavolo del laboratorio insieme ai minerali di uranio, si accorse che presen­tavano macchie scure come se fossero già state usate. Fu così che sco­prì che i minerali di uranio emettevano radiazioni anche se non erano stati esposti preventivamente ai raggi del Sole, e che quindi la proprietà di irradiare doveva dipendere da caratteristiche insite nella sostanza stessa e non da fattori esterni.

Questa particolare proprietà della materia venne chiamata «radioattività» dai coniugi Curie (Pierre e Maria Sklodowska, Premi Nobel per la fisica nel 1903), i quali dedicarono tutta la loro vita allo studio del fenomeno.

A quel tempo si scoprì che molte sostanze presenti nella crosta terrestre erano radioattive: oltre all'uranio, vi era il torio, l'attinio, il polonio, il radio e altre ancora. Tutte queste sostanze liberano energia che poi si trasforma in calore. Il calore emesso da un campione di roccia è minimo, ma poiché le sostanze radioattive sono molto abbondanti e diffuse uniformemente all'interno della crosta terrestre dove hanno continuato ad irradiare per miliardi di anni, il calore emesso complessivamente doveva essere enorme. Si veniva in questo modo a scoprire che la Terra possedeva una propria fonte di calore, indipendente da quella derivante dalla massa fusa originaria e da quella proveniente dal Sole e pertanto il suo raffreddamento avrebbe dovuto avvenire molto più lentamente di quanto calcolato. In seguito a queste nuove osservazioni l'età della Terra si allungava ulteriormente.

Frattanto si scopriva che le sostanze radioattive, e in particolare l'uranio, offrivano anche un metodo molto preciso, detto dell'isotopo radioattivo, per la determinazione dell'età delle rocce. Gli isotopi sono atomi diversi di uno stesso elemento, cioè atomi che contengono nel nucleo lo stesso numero di protoni, ma un numero diverso di neutroni. L'elemento idrogeno, ad esempio, è costituito da tre isotopi: prozio, deuterio e trizio; il primo presenta nel nucleo un protone e nessun neutrone, il secondo un protone e un neutrone e il terzo un protone e due neutroni. I neutroni fanno solo massa, mentre la particella che caratterizza chimicamente l’idrogeno è il protone. Molti elementi in natura sono costituiti da una miscela di isotopi, e molti di questi isotopi sono radioattivi.

Vediamo ora come sia stato possibile determinare l'età delle rocce attraverso l'analisi del contenuto di sostanze radioattive. L'isotopo 238 dell'uranio è radioattivo e si disintegra dando origine, alla fine di un lungo e complesso processo di trasformazione, ad atomi che non sono radioattivi. Il tasso di disintegrazione è assolutamente costante e non dipende dalla temperatura, dalla pressione o da altre condizioni fisiche e chimiche a cui è sottoposta la sostanza radioattiva; esso viene indicato, per comodità, attraverso una grandezza che prende il nome di «periodo di semitrasformazione» (o emivita). Questo rappresenta l'intervallo di tempo necessario affinché una certa quantità di sostanza radioattiva diventi la metà.

Quando una roccia solidifica, a partire da una massa fusa, si forma una serie di cristalli, ciascuno dei quali è composto da una ben determinata sostanza. Quindi, se una roccia contiene cristalli di uranio, dobbiamo ritenere che all'inizio, cioè quando questi cristalli si formarono, essi fossero costituiti esclusivamente dall’elemento uranio. Ora però, col passare del tempo, l'uranio si è trasformato in piombo per cui dal rapporto atomi di piombo/atomi di uranio presenti attualmente in un cristallo si dovrebbe poter risalire al tempo in cui il cristallo stesso si formò, essendo nota l'emivita dell'elemento radioattivo. Analizzando il contenuto in uranio e piombo delle rocce più antiche che si possono raccogliere si riuscì a stabilire che la Terra dovrebbe avere un'età di circa 4,6 miliardi di anni. Se l'età del nostro pianeta è effettivamente questa, quella del Sole dovrebbe essere leggermente maggiore, diciamo di 5 miliardi di anni.



5. MATERIA ED ENERGIA

Agli inizi degli anni Venti del secolo scorso fu imboccata finalmente la strada che avrebbe portato alla soluzione del problema relativo alla produzione dell'energia del Sole e delle altre stelle. Il suggerimento venne dal fisico inglese Arthur Stanley Eddington (1882-1944) il quale indicò nella trasmutazione degli elementi radioattivi la probabile fonte dell'energia solare.

In quegli anni Einstein aveva formulato la teoria della relatività speciale che conteneva l'equivalenza fra massa ed energia. Si tratta di una legge molto nota che afferma che tutte le volte che da un corpo viene estratta energia, deve diminuire la sua massa, e viceversa. Questa legge è espressa dall'equazione E = m·c², dove E è l'energia, m la massa e c è la velocità della luce. Poiché la velocità della luce elevata al quadrato è un numero molto grande, la legge suggerisce che da piccole quantità di materia che si annichiliscono, fuoriescono grandi quantità di energia.

La scoperta che la materia poteva essere considerata una forma di energia concentrata fece dunque sorgere il sospetto che quella irradiata dalle stelle non venisse prodotta a spese del loro volume, come pensavano von Helmholtz e lord Kelvin, ma a spese della loro massa.

A quel tempo, l'unica sorgente di energia nucleare che si conosceva era quella prodotta dall'uranio e dal torio. Potevano le stelle trarre energia da queste sostanze?

La risposta è no, e venne fornita dalla spettroscopia che era ormai in grado di indicare con precisione la composizione qualitativa e quantitativa del Sole e delle altre stelle. Esaminando la posizione e lo spessore delle righe di Fraunhofer, si era potuto determinare non solo il tipo di elemento chimico presente sulla stella, ma anche la sua abbondanza. In realtà la questione non è così semplice perché le caratteristiche dello spettro di una stella dipendono anche dalla temperatura, la quale, in prima approssimazione, si può stabilire osservando il colore della stella stessa.

Come si sa dalla termodinamica, quanto più aumenta la temperatura di un corpo, tanto più diminuisce la lunghezza d'onda delle radiazioni luminose che esso emette in prevalenza. In altre parole, quanto più un corpo è caldo tanto più chiara è la luce che si diffonde da esso. Pertanto, una stella di luce rossa (come ad esempio Betelgeuse, della costellazione di Orione) ha una temperatura superficiale piuttosto bassa (di circa 3000 gradi kelvin, 3000 K), mentre il Sole, che emette energia soprattutto come luce gialla, ha una temperatura sui 6000 K. Invece una stella come Rigel (anch'essa presente nella costellazione di Orione) che al nostro occhio appare azzurra, emette radiazioni prevalentemente di pic­cole lunghezze d'onda ed è quindi molto calda (circa 30.000 K).

L'analisi degli spettri prodotti dagli astri a diverse temperature evidenziava che la composizione chimica di una stella era mediamente la seguente: circa il 70% di tutta la sua massa era idrogeno, circa il 29% era elio, mentre tutti gli altri elementi presi insieme costituivano poco più dell'1% della massa totale.

Nel 1915, il chimico americano William Draper Harkins (1873-1951) suggerì l'idea che quattro nuclei dell'atomo di idrogeno avrebbero potuto fondersi insieme per formare il nucleo dell'atomo di elio e che dalla reazione si sarebbe potuta liberare energia. Questa «fusione» dei nuclei dell'idrogeno avrebbe infatti prodotto un nucleo atomico (quello dell'elio) di peso leggermente inferiore alla somma dei pesi dei quattro nuclei di partenza, e pertanto, la massa mancante, sarebbe potuta uscire sotto forma di energia.

Il processo di fusione nucleare venne studiato accuratamente e si scoprì che per la sua attuazione sarebbero state necessarie temperature elevatissime (milioni di gradi), che si sarebbero potute realizzare solo nelle zone più interne delle stelle, le quali, in superficie, come abbiamo appena visto, presentano temperature, al massimo, di poche decine di migliaia di gradi.

Nel 1920, il già ricordato fisico inglese Arthur Stanley Eddington credette di aver individuato il motivo per il quale le stelle non collassano definitivamente sotto l'effetto dell'enorme forza di gravità che la loro stessa massa produce. Egli partì dall'osservazione che, poiché le stelle sono dei corpi gassosi, per poter rimanere in equilibrio, l'attrazione gravitazionale verso l'interno dovrebbe essere bilanciata da una pari forza, che agisce verso l'eterno. Questa forza non poteva che essere quella generata dalla pressione dei gas surriscaldati che si genera al centro della stella e che spinge in senso opposto alla gravità.

Ma affinché si creino pressioni tali da opporsi al carico dei gas sovrastanti il "core" della stella (come si dice in termini tecnici), cioè il materiale che sta al centro, dovrebbe trovarsi a temperature di milioni di gradi. Che cosa potrebbe mantenere il nucleo di una stella costantemente a temperature tanto elevate? Eddington pensò ovviamente all'energia atomica.

La temperatura e la densità molto elevate del centro della stella dovrebbero essere tali da cambiare profondamente le caratteristiche stesse della materia, la quale, in quelle condizioni, non dovrebbe più essere formata da atomi interi, ma dai suoi costituenti sciolti, cioè da nuclei di atomi e da elettroni liberi di muoversi autonomamente come avviene per le molecole che costituiscono un gas.

Questo stato disordinato della materia viene detto «plasma», un termine in verità per nulla appropriato per indicare qualche cosa di caotico. Plasma infatti è una parola greca con la quale si indica ciò che ha una configurazione ben definita, tanto è vero che la corrispondente forma verbale «plasmare», significa proprio dar forma, quindi tutto il contrario di quello che si voleva intendere assegnando quel termine alla materia informe costituita da nuclei ed elettroni liberi da legami. Ma ormai il termine è entrato nel linguaggio scientifico e l'errore non può più essere corretto.

Il plasma del centro del Sole sarebbe formato da nuclei di atomi di idrogeno (cioè protoni), da nuclei di atomi di elio (o particelle a), da elettroni liberi e da pochi altri nuclei di atomi leggeri. A causa delle altissime temperature e dell'eccezionale affollamento, tutte queste particelle dovrebbero essere in veloce movimento e generare urti molto frequenti e molto violenti fino eventualmente a fondere insieme. Si trattava allora di elaborare un modello particolareggiato e coerente in grado di spiegare attraverso quali reazioni successive si sarebbero potuti combinare fra loro i nuclei degli atomi più semplici affinché formassero nuclei di atomi più complessi.

Il processo venne descritto dettagliatamente, nel 1938, da Hans Albrecht Bethe, uno scienziato statunitense di origine tedesca nato nel 1906 e tuttora vivente, il quale individuò due strade attraverso le quali avrebbe potuto verificarsi la fusione nucleare. I processi che descriveremo relativamente al Sole, salvo lievi modifiche, valgono anche per le altre stelle.



6. LE FORZE CHE TENGONO UNITI I NUCLEONI

Prima di esporre i processi di fusione nucleare forse è opportuno ricordare come siano fatti gli atomi, o meglio di che cosa siano costituiti i loro nuclei. I nuclei degli atomi, come abbiamo già detto, sono formati dall'unione di più protoni e neutroni, detti anche, con termine unico, nucleoni. I protoni sono corpuscoli con carica elettrica positiva, mentre i neutroni non possiedono carica elettrica. Ora, poiché sappiamo che le cariche elettriche dello stesso segno si respingono, viene da chiedersi come possano stare insieme, senza disintegrarsi, i nuclei degli atomi che contengono più di un protone al loro interno. Evidentemente deve esistere una forza, più forte di quella elettrica di repulsione, che tiene uniti i nucleoni all'interno dei nuclei atomici. Di che forza si tratta?

Poiché la meccanica quantistica suggeriva l'idea che le forze si manifestano con lo scambio di particelle (fotoni per la forza elettromagnetica e gravitoni per la forza di gravità), nel 1935 il fisico giapponese Hidekei Yukawa avanzò il convincimento che se fosse esistita effettivamente una forza in grado di tenere uniti i protoni e i neutroni all'interno del nucleo, nello stesso luogo avrebbe dovuto essere presente anche una particella di grandezza intermedia fra quella dell'elettrone e quella del protone adatta a svolgere questo ruolo. Questa particella, con la funzione di «col­lante», avrebbe dovuto interagire con i nucleoni, così come, ad esempio con le particelle cariche di elettricità, interagiscono i fotoni. La particella ipotizzata da Yukawa fu chiamata mesone (dal greco «meso» = che sta in mezzo) e venne individuata nel 1937 in uno storico esperimento condotto all'interno delle cosiddette «camere a nebbia». La forza connessa alla presenza del mesone fu chiamata «interazione forte» ed ha la caratteristica non solo di essere molto più energica di quella elettrica, ma anche di agire esclusivamente fra particelle poste a brevissima distanza, come sono per l'appunto i nucleoni all'interno dei nuclei atomici.

La forza nucleare opera nel modo migliore quando neutroni e protoni all’interno del nucleo sono in proporzioni determinate. Se i nuclei contengono fino ad un massimo di quaranta particelle la proporzione migliore è quella costituita da un numero uguale di protoni e neutroni. Nel caso di nuclei più complessi la stabilità è garantita da un numero di neutroni superiore a quello dei protoni. Il nucleo dell’atomo di piombo, ad esempio, contiene 83 protoni, ma ben 125 neutroni. Un nucleo atomico con nucleoni in proporzioni diverse da quelle dei nuclei stabili tende a modificare il numero di protoni e neutroni esistenti in modo da rientrare nella regione della stabilità. I nuclei instabili sono quelli degli atomi radioattivi.

La forza nucleare è molto intensa ma diminuisce fortemente con la distanza tanto che già all’esterno del nucleo non è più sensibile. A differenza della nucleare, la forza elettrica, espressa dalla legge di Coulomb, agisce invece a tutte le distanze anche se con diversa intensità e può essere sia attrattiva che repulsiva. Ad esempio, la forza che agisce fra due corpi carichi di elettricità dello stesso segno, posti ad una certa distanza, si fa più intensa quando gli oggetti stessi si avvicinano, perché tale forza è direttamente proporzionale al prodotto delle cariche in gioco, ma inversamente proporzionale al quadrato della distanza a cui sono poste le cariche stesse: di conseguenza aumenta di poco all’aumentare della carica, ma di molto al diminuire della distanza.

Proviamo allora a condurre un esperimento concettuale, cioè teorico, nel quale si immagina di lanciare due protoni l'uno contro l'altro. Durante l’esperimento noi dovremmo vedere, in un primo tempo, i due protoni avvicinarsi, ma poi, quando si venissero a trovare molto vicini, la repulsione elettrica dovrebbe farsi tanto intensa da produrre il loro allontanamento, e quindi li si dovrebbe vedere rimbalzare lontano. Ora, però, se l'energia con la quale i nostri due protoni vengono lanciati l'uno contro l'altro fosse molto grande, prima che prenda il sopravvento la repulsione di natura elettrica, essi potrebbero venire a trovarsi così vicini l’uno all’altro da risentire l'effetto della interazione forte che, come abbiamo detto, è una forza attrattiva che si rende efficace a brevissima distanza. I due protoni, quindi, essendo finiti molto vicini, invece che respingersi, dovrebbero rimanere agganciati definitivamente perché ciò che la forza nucleare ha unito la forza elettrica non può più dividere. Naturalmente, se il tentativo venisse effettuato per unire un protone ed un neutrone, invece che due protoni, l’energia necessaria per avvicinarli dovrebbe essere minore di quella impiegata nell’esperimento precedente.

Se al centro del Sole si unissero due protoni, nel modo che abbiamo descritto, si formerebbe il nucleo dell'atomo di elio-2 il quale è una particella molto instabile perfino a temperatura ambiente e quindi, verosimilmente, in quel luogo caldissimo si disintegrerebbe immediatamente dopo formata. Però esiste la possibilità che un protone possa perdere un positone (ossia un elettrone positivo) divenendo neutrone e l'unione di un neutrone con un protone non solo richiederebbe meno energia, ma condurrebbe anche ad una struttura più stabile.

Se un protone può perdere un positone e trasformarsi in neutrone, il protone stesso potrebbe essere immaginato come un neutrone che porta legato a sé un positone. Ebbene, le cose stanno effettivamente in questi termini e la forza che lega queste due particelle si chiama «interazione debole». Questa forza, a differenza di quella forte, può essere sia attrattiva che repulsiva, ma agisce anch'essa solo fra particelle poste a brevissima distanza.

Abbiamo quindi visto che se un protone perde un positone si trasforma in neutrone, ma esiste anche la possibilità contraria e cioè quella di un neutrone che si libera di un elettrone e diventa protone. Proprio studiando quest'ultimo fenomeno, intorno agli anni Trenta del secolo scorso, i fisici notarono che nel processo di trasformazione vi era un'inspiegabile perdita di energia.

La cosa sorprese non poco perché, a quel tempo, era già nota una legge fondamentale della fisica, detta «legge di conservazione dell'energia», secondo la quale l'energia può trasformarsi da un tipo in un altro e può anche passare da un corpo ad un altro, ma il suo ammontare complessivo deve rimanere inalterato. In altre parole, l'energia non può né essere creata dal nulla, né svanire nel nulla. Ora, poiché la legge di conservazione dell'energia è una di quelle leggi di natura che i fisici ritengono inviolabili, si doveva trovare una spiegazione plausibile per giustificare l'apparente perdita di energia che si notava nella trasformazione del neutrone in protone.

Il fisico austriaco Wolfang Pauli (1900-1958) ipotizzò che l'energia mancante si fosse trasformata in un frammento di materia (materia ed energia, come sappiamo, sono due entità intercambiabili) di massa molto piccola e privo di carica elettrica. Questo corpiciolo di dimensioni insignificanti, che in seguito verrà chiamato «neutrino» da Enrico Fermi, sarà osservato direttamente all'interno di un reattore nucleare dai fisici statunitensi Clyde Cowan e Frederick Reines solo nel 1953, cioè una ventina di anni dopo la sua segnalazione teorica. Il motivo di tanta difficoltà nella sua individuazione diretta va ricercato indubbiamente nelle dimensioni ridottissime di questa strana particella, ma anche nel fatto che essa non possiede una carica elettrica, qualità che invece l’avrebbe resa facilmente individuabile. Queste caratteristiche di piccolezza e di neutralità consentono al neutrino di attraversare la materia senza interagire (o quasi) con essa. Si calcola che un neutrino potrebbe viaggiare attraverso un muro esteso da qui alla Proxima Centauri (una stella che si trova a 40 mila miliardi di kilometri da noi) senza mai scontrarsi con il nucleo di un atomo. Ciò sarebbe anche conseguenza del fatto che i neutrini viaggiano alla velocità della luce (ulteriore prova, quest'ultima, dell'assenza di massa perché gli oggetti dotati di massa devono viaggiare necessariamente a velocità inferiori a quella della luce) e sono sensibili solo all'interazione debole la quale, come abbiamo detto, si rende efficace solo a brevissima distanza: in pratica solo quando una di queste particelle dovesse centrare in pieno il nucleo di un atomo. Ora, poiché i neutrini sfrecciano alla velocità della luce, essi rimangono in prossimità dei nuclei atomici solo per tempi in­finitamente brevi (un milionesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo); troppo brevi perché si possano verificare reazioni di sorta.

Ma i neutrini, come vedremo meglio in seguito, si formano in gran numero anche nel Sole in seguito alla fusione atomica dell'idrogeno e quindi dovrebbero arrivare a frotte anche sulla Terra. Come fare per rilevarli? Da più di trent'anni lo stesso fisico americano che li scoprì all'interno dei reattori nucleari, Frederick Reines, è impegnato nella cattura di neutrini provenienti dal Sole.

L'esperimento è iniziato nel 1968 e in dieci anni Reines era riuscito ad osservare già un gran numero di neutrini, ma tuttavia in quantità minore di quella prevista teoricamente. Mancano all'appello circa i due terzi dei neutrini pronosticati. E' sbagliata la teoria? E' difettoso l'impianto sperimentale? Forse nulla di tutto ciò.

Alcuni esperimenti condotti una ventina d'anni fa sembrano indicare che esistono tre tipi diversi di neutrini che si trasformano in continuazione l'uno nell'altro. Può essere quindi che gli strumenti per la rilevazione dei neutrini usati per studiare il Sole, siano in grado di captare una sola varietà delle tre entro cui, durante il viaggio verso la Terra, i neutrini si trasformano variando incessantemente da una specie all'altra.



7. LE SORGENTI DELL'ENERGIA STELLARE

Riprendiamo ora il discorso sulla fusione nucleare. Abbiamo visto che se nel centro del Sole, oltre ai protoni, vi fossero anche i neutroni, l'unione di un protone con un neutrone diventerebbe relativamente agevole e si formerebbe anche un nucleo abbastanza stabile, cioè il deutone (il nucleo dell'atomo di deuterio, l'isotopo pesante dell'idrogeno).

Dopo che si è formato il deutone (o nucleo dell’idrogeno-2) - suggerisce Bethe - potrebbe formarsi il nucleo dell'elio attraverso due altre reazioni che coinvolgono protoni. In un primo momento potrebbe aver luogo la produzione di nuclei di elio-3 per fusione di un nucleo di deuterio con un protone, poi questi nuclei, a due a due, potrebbero reagire fra loro formando il nucleo dell'atomo di elio-4, e liberare simultaneamente due protoni.

Il risultato complessivo di questa serie di reazioni, chiamata reazione protone-protone o «catena p-p», è la conversione di quattro protoni (cioè quattro nuclei dell'atomo di idrogeno) in un nucleo di elio. Durante questo processo si libera energia perché vi è una perdita netta di massa, in quanto la massa del nucleo dell'atomo di elio è leggermente inferiore alla massa complessiva dei quattro protoni da cui tale nucleo ha tratto origine.

La perdita di massa, tuttavia, è appena dello 0,7%. Questo vuol dire che l'energia prodotta da quattro protoni che si uniscono in un nucleo di elio è poca cosa, ma è notevole quella che si produce nel Sole dove, in un solo secondo, viene generata l'energia corrispondente all'annichilimento di quattro milioni e mezzo di tonnellate di materia. In altre parole, in ogni secondo, nel Sole, 564,5 milioni di tonnellate di idrogeno si trasformano in 560 milioni di tonnellate di elio, e si perdono pertanto 4,5 milioni di tonnellate di materia (0,7% del totale) che si converte in energia. Ora, a prima vista, la sparizione di 4,5 milioni di tonnellate di materia ogni secondo sembrerebbe una perdita ingente e tale da consumare, in breve tempo, tutta la riserva di idrogeno presente nel Sole, ma la massa del Sole è enorme (2x1030 kg) e dopo 5 miliardi di anni di attività ininterrotta, la perdita di materia, percentualmente, è stata modesta. Per la precisione, il Sole da quando è nato ha perso solo 6,5x1026 kg di materia e poiché si calcola che continuerà a produrre energia a questo ritmo e attraverso questo medesimo processo fisico di trasformazione per un tempo altrettanto lungo quanto quello trascorso dalla sua formazione ad oggi, trasformerà in energia altrettanta materia, ma alla fine non avrà perso nemmeno un millesimo della sua massa totale. Sarebbe come se un uomo di 100 kilogrammi, dopo una lunga cura dimagrante, constatasse di avere perso 100 grammi di peso, praticamente niente.

A questo punto, prima di passare oltre, vi è da chiedersi per quale motivo il Sole non si disintegri in un’unica grande esplosione anziché realizzare i processi di fusione gradualmente nell’arco di miliardi di anni. La risposta sta nella vita breve dei neutroni i quali decadono uccisi dalla cosiddetta interazione debole, quella forza che come è stato detto si esercita fra particelle poste a breve distanza. L’interazione debole si manifesta fra due neutroni attraverso lo scambio di particolari corpuscoli detti “particelle W”, scoperti dal fisico goriziano Carlo Rubbia al centro di Ricerca Nucleare di Ginevra. I neutroni, diminuendo di numero, rallenterebbero il processo di fusione e quindi in pratica svolgerebbero la stessa funzione delle “barre di controllo” all’interno dei reattori nucleari.

L'altro meccanismo attraverso il quale l'idrogeno può essere convertito in elio è detto ciclo carbonio-azoto, o «ciclo C-N»; esso è detto anche «ciclo CNO» perché alla reazione in verità partecipa anche l'ossigeno. Prima di parlarne dobbiamo quindi vedere in che modo potrebbe comparire il carbonio e gli altri elementi all'interno del Sole ed eventualmente anche nelle altre stelle.

La teoria prevede che il carbonio potrebbe formarsi, all'interno delle stelle, attraverso reazioni nucleari, ma in alcuni casi questo elemento potrebbe anche essere già presente fin dal momento della nascita della stella. Esistono infatti due tipi fondamentali di stelle che gli astrofisici chiamano rispettivamente stelle di Popolazione I e stelle di Popolazione II. Le prime si sarebbero formate in tempi relativamente recenti utilizzando (almeno in parte) il materiale di quelle stelle che hanno terminato la loro esistenza esplodendo e lanciando nello spazio la materia di cui erano costituite, mentre le seconde si sarebbero formate all'inizio dei tempi, quindi praticamente insieme all'Universo.

Le stelle di Popolazione I, a cui appartiene anche il Sole, contengono, come abbiamo visto, soprattutto idrogeno ed elio, ma anche una discreta quantità di elementi più pesanti (fra cui carbonio e azoto) e sono sistemate alla periferia delle galassie. Le stelle di Popolazione II contengono invece quasi esclusivamente idrogeno ed elio e si trovano addensate al centro delle galassie. Si ritiene quindi che quest'ultimo tipo di stelle si sia formato quando si sono formate le galassie stesse, ossia poco dopo l'origine dell'Universo. Per tale motivo sarebbe stato più logico chiamare stelle di Popolazione I queste ultime, e riservare il nome di stelle di Popolazione II a quelle che effettivamente si sono formate per seconde. Ma i nomi sono stati assegnati quando non si conosceva ancora l'origine di questi due tipi di stelle, e ora non è più possibile cambiarli.

Le stelle di grande massa, come vedremo meglio in seguito, hanno vita breve e terminano la loro esistenza esplodendo come supernovae. Il materiale che queste stelle lanciano tutto intorno si mescola con le nubi di gas presenti negli spazi interstellari e successivamente si condensa sotto la propria attrazione gravitazionale, formando nuove stelle. Queste ultime sono quindi stelle di seconda generazione e contengono una certa percentuale di atomi pesanti che si erano formati nel nucleo delle stelle vissute in precedenza e morte tragicamente in giovane età. Il Sole che come abbiamo detto è una stella di questo tipo, è nato da una nube formata anche dai detriti dell'esplosione di una supernova e contiene quindi atomi pesanti fin dal tempo della sua formazione che è avvenuta quando la Galassia di cui fa parte aveva già un'età di circa 10 miliardi di anni.

Se una stella non contiene carbonio fin dalla sua formazione questo elemento si dovrebbe formare, nel suo interno, a partire dagli elementi leggeri che sono presenti. Non è facile tuttavia immaginare la nascita di atomi di carbonio all’interno di una stella costituita esclusivamente di idrogeno ed elio. Le reazioni che potrebbero dare l'avvio alla formazione di elementi più pesanti dell'idrogeno e dell'elio sono di due soli tipi, e cioè o la cattura di un protone da parte del nucleo di elio, o la fusione di due nuclei di elio. Nel primo caso si formerebbe il nucleo dell'isotopo 5 del litio, nel secondo caso il nucleo dell'isotopo 8 del berillio. Ora però, né il litio-5, né il berillio-8 sono nuclei stabili. E poiché se non si formano prima questi due nuclei non si possono nemmeno formare quelli successivi, non si riusciva a capire in che modo si sarebbe potuto originare, all'interno di una stella, il nucleo dell'atomo di carbonio, indispensabile per l'avvio delle reazioni del ciclo carbonio-azoto.

Il problema relativo alla formazione del carbonio fu risolto, alla fine, da due oscuri collaboratori di Bethe, E. E. Salpeter ed E. Öpik i quali, prendendo le mosse da un'intuizione del fisico inglese Fred Hoyle, ipotizzarono che quando nel nucleo di una stella si riduceva notevolmente il contenuto in idrogeno presumibilmente, in quella stella, sarebbe terminata anche la reazione p-p. A quel punto, venendo a mancare l’energia necessaria per la spinta verso l'esterno, si sarebbe verificato un crollo del materiale della stella verso l'interno con conseguente aumento della temperatura del nucleo centrale, fino a portarla a 100 milioni di gradi. A causa di questa formidabile implosione, nel nucleo della stella anche la densità sarebbe aumentata enormemente fino a raggiungere valori di almeno mille volte superiori a quelli precedenti, già di per sé elevatissimi. In quelle condizioni estreme, il nucleo di berillio-8, la cui vita è di appena una frazione irrilevante di secondo (10-15 s), avrebbe fatto in tempo, prima di scindersi nuovamente nei due nuclei dell'atomo di elio da cui era derivato, ad unirsi ad un altro nucleo di elio. In altri termini, per l'elevata densità, i nuclei degli atomi di elio nel centro della stella sarebbero molto vicini gli uni agli altri e in quello stato è possibile immaginare uno scontro praticamente simultaneo di tre nuclei di elio-4. Questi, combinandosi, formerebbero il nucleo del carbonio-12.

Una volta formatosi il carbonio-12, esso fungerebbe poi da catalizzatore nucleare di una serie di reazioni che coinvolgono i protoni (appunto quello che abbiamo chiamato il ciclo C-N). Il carbonio-12 potrebbe allora assorbire gradualmente tre protoni trasformandosi prima in azoto-13, poi in azoto-14 e quindi in ossigeno-15, emettendo contemporaneamente due positoni e due neutrini. Successivamente, l'ossigeno dovrebbe assorbire un quarto protone, quindi disintegrarsi espellendo una particella a e ripristinando il carbonio-12 di partenza.

L'effetto del ciclo di reazioni C-N è identico a quello della catena p-p perché in entrambi i casi avviene la conversione di quattro protoni in un nucleo di elio, con una perdita di massa dello 0,7% che si converte integralmente in energia. L’unica differenza rispetto alla prima sta nel fatto che nella reazione C-N serve l'atomo di carbonio come regolatore della reazione.

Ricapitolando, in una stella nel cui centro vi siano solo idrogeno ed elio e la cui temperatura interna non superi di molto i 10 milioni di gradi kelvin, l'energia prodotta dovrebbe derivare interamente dalla catena di reazioni protone-protone. Invece in una stella che contiene nel suo interno anche carbonio, potrebbe instaurarsi, oltre alla catena p-p, pure il ciclo di reazioni carbonio-azoto, purché si raggiungano temperature adeguate. La quantità di energia prodotta da un processo o dall'altro dipende dunque dalla temperatura del nucleo della stella: se la temperatura si alza notevolmente al di sopra dei 10 milioni di gradi, il ciclo di reazioni C-N diventa la principale fonte di energia della stella.

Perciò, per concludere, le stelle che hanno massa molto grande e risplendono di luce bianco-azzurra molto intensa, in quanto sono molto calde (come per esempio Sirio), traggono la loro energia essenzialmente dal ciclo C-N, mentre le stelle più piccole e più fredde (per esempio il nostro Sole) ricavano la loro energia attraverso la catena p-p.


http://www.cosediscienza.it/astro/09.%20VITA%20E%20MORTE%20DELLE%20STELLE.htm

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