martedì 5 febbraio 2008

I MODELLI DELL'UNIVERSO-1-6 PARTE

Parte I

L'uomo per secoli ha ritenuto che l'Universo fosse fisso ed
immutabile e solo di recente si è convinto che invece
anch'esso può avere avuto una sua evoluzione.



La teoria della Relatività Generale di Albert Einstein (1916) ha rappresentato il fondamento della cosmologia moderna, ma i progressi maggiori nella comprensione della conformazione generale dell'Universo e della sua evoluzione si sono avuti solo negli ultimi due decenni del secolo scorso, grazie soprattutto alle nuove conoscenze sulla struttura intima della materia e sulle proprietà delle forze. Queste nuove acquisizioni hanno consentito non solo una descrizione più precisa e dettagliata dell'Universo nel suo insieme, ma anche, per la prima volta, una spiegazione rigorosamente scientifica della sua origine vera e propria.

La Relatività Generale è sostanzialmente una teoria che interpreta la gravità in modo nuovo, e cioè non più come una forza misteriosa che agisce a distanza fra corpi massicci, ma come una proprietà dello spazio, il quale risulterebbe deformato per la presenza in esso della materia. Lo spazio, pertanto, alla luce della nuova teoria, non sarebbe più quel contenitore vuoto e inerte entro il quale agiscono gli oggetti materiali, ma diventerebbe esso stesso un prodotto della materia. In altre parole se prima di Einstein lo spazio poteva esistere anche senza la materia dopo Einstein, se non ci fosse la materia, non esisterebbe nemmeno lo spazio.

Per farsi un'idea concreta della nuova teoria si può immaginare lo spazio rappresentato da un materasso di gommapiuma, sul quale siano stati posti alcuni oggetti massicci che, con il loro peso, provocano delle depressioni entro le quali tendono a scivolare gli oggetti vicini. Quindi l'attrazione tra gli oggetti non è prodotta da forze che agiscono a distanza e istantaneamente, come pensava Newton, ma è semplicemente la conseguenza di una particolare configurazione che lo spazio assume a causa della presenza in esso di oggetti massicci.

Ora però, se lo spazio tridimensionale tende spontaneamente ad incurvarsi, esso dovrebbe disporre di una quarta dimensione entro cui poterlo fare, così come un piano bidimensionale, per esempio un foglio di carta, ha bisogno di una terza dimensione per potersi ripiegare. Da qui nasce l'esigenza di individuare una quarta dimensione da aggiungere alle tre di cui abbiamo esperienza diretta. Einstein pensò al tempo, ma non ad esso in quanto tale, bensì al tempo come vera e propria dimensione spaziale. Questa quarta dimensione tuttavia differisce dalle altre in quanto è caratterizzata da un’unica direzione: essa va solo in avanti.

Ora, avendo sostituito al concetto di forza quello di spazio deformato, Einstein venne in possesso di tutto ciò che era necessario per descrivere l'Universo nella sua globalità. Se la materia distorce localmente lo spazio - egli ragionò - non è da escludere che la stessa, nel suo insieme, non possa conferire una curvatura generale all'Universo intero, determinandone l'aspetto. In questo modo il fisico tedesco pervenne al suo modello di Universo curvo quadridimensionale, una struttura che sfugge tuttavia alla nostra capacità di visualizzazione. Un'immagine bidimensionale può però servire a rappresentare in modo intuitivo le caratteristiche del modello einsteiniano di Universo.

Pensiamo allora ad un Universo piatto ma curvo, come è ad esempio la superficie terrestre, su cui possa muoversi una formica che, per le ridotte dimensioni, possiamo anch’essa immaginare piatta. La nostra formica bidimensionale potrà muoversi in ogni direzione, tornare a percorrere cammini già percorsi e fare eventualmente anche il giro completo della Terra senza incontrare mai ostacoli o cadere nel vuoto. Da questo punto di vista, la superficie della Terra è illimitata, ma nello stesso tempo finita perché, per quanto grande (soprattutto per la formica), è pur sempre misurabile. Allo stesso modo l'Universo a quattro dimensioni, che scaturisce dalla teoria della Relatività Generale, è illimitato e finito, potrebbe cioè essere percorso in tutte le direzioni senza mai incontrare barriere o confini, e tuttavia avere dimensioni misurabili, anche se enormi.

Einstein, tuttavia, era condizionato dal pregiudizio che l'Universo fosse fisso ed immutabile. Questo convincimento affondava le sue radici nei tempi più antichi e lo stesso Newton ne fu vittima quando, per impedire che l'attrazione reciproca delle masse presenti in esso potesse condurre ad un collasso generale, fu costretto ad ammettere una distesa indefinita di stelle in modo che ciascuna di esse fosse attratta da tutte le parti da infinite altre. Anche le equazioni conseguenti alla teoria della Relatività Generale descrivevano in termini matematici l'attrazione reciproca dei corpi, cioè sostanzialmente un movimento di contrazione, e pertanto Einstein, per fare in modo che l'Universo intero non precipitasse su sé stesso, inserì nei calcoli un termine ad hoc, la cosiddetta «costante cosmologica», con il ruolo di forza antigravitazionale. Questa avrebbe dovuto assolvere lo stesso ruolo che, nel modello di Newton, svolgeva la presenza di un numero infinito di stelle. Di questo aggiustamento il fisico tedesco dovrà però pentirsi.

Frattanto, nonostante i pregiudizi e le apparenze contrarie, si andava facendo strada il convincimento che l'Universo non fosse fisso, immutabile ed eterno, ma che si andasse evolvendo nel tempo. E infatti, proprio nello stesso anno in cui Einstein prospettava il suo modello di Universo statico (siamo nel 1917) un astronomo olandese, di nome Willem de Sitter, dimostrò che una soluzione delle equazioni della Relatività Generale suggeriva la possibilità di un Universo in espansione. Poco più tardi, il fisico e matematico russo Aleksandr Fridmann chiarì che le equazioni di Einstein conducevano, in modo spontaneo, ad una struttura inequivocabilmente instabile di Universo come potrebbe essere ad esempio quella di una matita in equilibrio sulla punta.

Infine, nel 1927, il prete-scienziato di nazionalità belga Georges Lemaître, sempre servendosi della stessa teoria di Einstein, non solo rilanciò l'idea di un Universo in espansione, ma si spinse ben oltre immaginandone l'origine da un «atomo primordiale», cioè da un gigantesco ammasso di densità elevatissima che avrebbe dovuto racchiudere in sé, all'inizio dei tempi, tutta la materia e tutta l'energia che oggi è distribuita nelle stelle e negli spazi interstellari. Raccogliendo e comprimendo tutta la materia sparsa nell’Universo, egli calcolò che si sarebbe formato un corpo compatto grande quanto il Sistema solare.

I modelli teorici, tuttavia, non sono sufficienti da soli a fornire una visione completa dei fenomeni naturali: nella scienza servono anche, e soprattutto, i riscontri oggettivi che, anche in questo caso, non tardarono a venire.



Parte II

L'osservazione del moto radiale delle Galassie dimostra,
in pieno accordo con le teorie di Einstein,
l'espansione dinamica dell'Universo.



Nel 1929 l'astronomo americano Edwin Hubble (1889-1953), utilizzando il più grande telescopio di quel tempo, il riflettore di due metri e mezzo di Monte Wilson, in California, osservò lo «spostamento verso il rosso» (il famoso red shift) delle righe spettrali delle galassie. Questo fenomeno, interpretato come «effetto Doppler» per la luce, costituiva la prova che quegli ammassi di stelle si stanno allontanando da noi. Hubble notò anche che quanto maggiore era la distanza di una galassia, tanto maggiore era la sua velocità di allontanamento. Questa relazione lineare fra distanza e velocità delle galassie oggi si chiama “legge di Hubble” e può essere espressa nel modo seguente: V = H·d, dove V è la velocità di allontanamento della galassia, d la sua distanza e H una costante di proporzionalità il cui valore ha subito nel tempo numerose correzioni e aggiustamenti. Oggi H vale circa 50 km/s per milione di parsec corrispondente a 17 kilometri al secondo per milione di anni luce. Questo significa che una galassia che si trovasse ad un milione di anni luce da noi si allontanerebbe alla velocità di 17 kilometri al secondo, mentre una che si trovasse a 1 miliardo di anni luce da noi si allontanerebbe alla velocità di 17.000 km al secondo. Ora, poiché il fondo dell'Universo dovrebbe stare a circa 15 – 16 miliardi di anni luce, una galassia che si trovasse da quelle parti non la si vedrebbe perché si allontanerebbe alla velocità di circa 300.000 km al secondo, cioè alla stessa velocità della luce, luce che quindi non potrebbe staccarsi da quella galassia.

L'allontanamento di tutte le galassie non significa necessariamente che noi, con la nostra, ci troviamo in posizione centrale (la visione di questo allontanamento sarebbe infatti identica in qualunque punto dello spazio ci si ponesse), né che le galassie si stanno muovendo attraverso gli spazi. Per farci un'idea concreta del fenomeno bisogna pensare alle galassie come si trattasse di acini di uvetta passa dentro un panettone che sta lievitando: su qualsiasi acino si fissasse l’attenzione si vedrebbero tutti gli altri intorno che si allontanano da esso. Inoltre, pur spostandosi reciprocamente, gli acini di uva passa non viaggiano attraverso l’impasto, ma il loro movimento è determinato semplicemente dall’espandersi della pasta che lievita, cioè da quello che nella similitudine consideriamo essere lo spazio.

In seguito all'osservazione dell'allontanamento delle galassie lo stesso Einstein accettò l'idea di un Universo in espansione e riconobbe di aver commesso l'errore più grave della sua carriera scientifica quando cercò di modificare le equazioni della sua teoria (con l'introduzione del termine cosmologico) al fine di fornire un modello di Universo statico.

Dalla valutazione delle distanze delle galassie, delle loro velocità di allontanamento e del tasso di decelerazione conseguente all'attrazione gravitazionale prodotta dagli stessi corpi celesti, gli astronomi riuscirono anche a determinare il tempo trascorso dall'epoca in cui gli ammassi di stelle dovevano essere tutti molto vicini tra loro. Quel tempo venne calcolato in circa 15 miliardi di anni, e rappresenterebbe per l’appunto l'età dell'Universo.

Nel 1948 il fisico russo George Gamow (allievo di Aleksandr Fridmann), rifugiatosi per motivi politici in Europa, e successivamente trasferitosi negli Stati Uniti, modernizzò e perfezionò la teoria dell'Universo in espansione di Lemaître, che in seguito prese il nome di «modello del Big Bang», cioè del grande botto, un appellativo che gli fu assegnato in termini scherzosi dall’astronomo inglese Fred Hoyle (1915-2001) per mettere in ridicolo la teoria che lui riteneva inconsistente. Il termine invece piacque ai suoi sostenitori, venne divulgato e finì per perdere la connotazione negativa con la quale era stato proposto.

Gamow rappresenta il classico esempio di genio e sregolatezza. Egli fu uno studioso attivo in vari campi del sapere scientifico (fra l'altro fu colui che per primo intuì l'importanza biologica del DNA e ne suggerì anche la forma), oltre che un apprezzato divulgatore. Morì prematuramente, per gli eccessi dell'alcol, lasciando in molti il convincimento che fosse stato defraudato, in più occasioni, del premio Nobel. Una di queste si riferisce alla scoperta della radiazione di fondo di 3 K da parte di due tecnici dei Bell Telephone Laboratories (la società privata americana dei telefoni), Arno Penzias e Robert Wilson, nel 1965.

L'esistenza di una tale radiazione, che doveva rappresentare il residuo raffreddato di quello che era stato il globo di fuoco dell'esplosione iniziale, era stata suggerita, molto tempo prima, dallo stesso Gamow, come effetto della continua espansione e del conseguente lento e graduale raffreddamento dell'Universo. Secondo il modello del Big Bang, insieme con l’espansione dello spazio, avrebbe dovuto dilatarsi anche l’onda elettromagnetica, la quale, nei primi istanti di vita dell’Universo doveva essere cortissima e carica di energia, ma l’espansione la rese più lunga fino a farla diventare pari a quella che emergerebbe da un corpo molto freddo (per l’appunto alla temperatura di 3 gradi assoluti, cioè 270 °C sotto zero). Ma di ciò non venne mai fatto cenno nelle relazioni che seguirono alle osservazioni dei due tecnici americani.

L'Universo non esisterebbe quindi da sempre, ma sarebbe il risultato di una enorme esplosione avvenuta all'incirca 15 miliardi di anni fa. Il modello del Big Bang, suggerito da Gamow, è in grado tuttavia di descrivere, in modo soddisfacente, l’evoluzione dell’Universo solo da un certo momento in poi, e non fin dal suo primo istante di vita. Cerchiamo di spiegarne la ragione.

Il modello di Gamow è detto classico (o standard) in quanto si fonda sulle leggi della fisica classica, cioè su leggi che riguardano i fenomeni macroscopici della natura e che quindi non sono in grado di descrivere l'aspetto dell'Universo fin dall'atto della sua creazione, quando, verosimilmente, doveva essere molto piccolo e caratterizzato da materia in condizioni fisiche molto particolari.

In verità è lo stesso modello proposto da Gamow a suggerire che, all'atto della sua formazione, l'Universo doveva possedere un aspetto fisico del tutto eccezionale, con la materia tutta concentrata in uno spazio esiguo e sottoposta a temperature elevatissime. Per descrivere il comportamento della materia in quelle condizioni estreme sarebbe fuorviante fare ricorso alle leggi della fisica classica, perché quelle leggi perdono di validità quando vengono applicate a situazioni diverse da quelle entro le quali sono state ricavate.

Ma gli astronomi, nonostante tutte le difficoltà di carattere concettuale, non si arresero davanti all'evidenza e tentarono comunque di spingersi indietro nel tempo fino al momento della creazione dell'Universo, per cercare di capire come questa avrebbe potuto aver luogo. Che cosa poteva essere accaduto nell'istante stesso del Big Bang? Che forma e che consistenza avrebbe dovuto avere l'Universo nel suo stato iniziale? Che cosa eventualmente vi fu prima di tale evento?

Tutte domande molto impegnative, ma anche molto affascinanti e per le quali, in un primo tempo, sembrava non dovessero esserci risposte adeguate. Oggi però esiste la possibilità, senza scivolare nella metafisica, di rispondere anche a domande di questo tipo. I fisici dispongono infatti di nuove teorie, le quali descrivono con rigore il mondo microscopico degli atomi e delle particelle subatomiche.



Parte III

All'inizio dei tempi l'Universo doveva essere di dimensioni ridottissime
e quindi non poteva obbedire alle leggi della fisica classica, che sono leggi
adatte a descrivere fenomeni macroscopici della natura.
Solo di recente si è compreso che la meccanica quantistica,
una teoria che spiega i fenomeni relativi agli oggetti infinitamente piccoli,
poteva essere utilmente applicata all'Universo primordiale.



In base al modello standard del Big Bang, all'atto della sua "creazione", cioè al tempo zero, l’Universo avrebbe dovuto avere tutta la materia concentrata in un punto privo di dimensioni. Questa entità di estensione nulla, avrebbe dovuto essere nello stesso tempo infinitamente pesante e infinitamente calda: una situazione, come è facile capire, assurda, perché in natura nulla può essere ridotto a zero come nulla può essere ingrandito fino a fargli assumere dimensioni infinite. In realtà, questa particolare condizione dell'Universo primordiale era stata ricavata per via puramente matematica e non aveva quindi una sua consistenza fisica. Essa venne detta «singolarità», con chiaro riferimento alle sue caratteristiche di unicità.

I fisici teorici di nazionalità inglese Roger Penrose (1931- ) e Stephen Hawking (1942- ) hanno dimostrato che la soluzione delle equazioni di Einstein porta inequivocabilmente a tale risultato. Ma come è possibile, ci si chiese, immaginare un oggetto di dimensioni nulle e, contemporaneamente, di densità infinita? La risposta l'abbiamo già data: non è possibile! Tuttavia ciò non vuole dire affatto che di un argomento del genere non si possa discutere al fine di individuare una eventuale soluzione del problema: vuol dire semplicemente che il modello standard del Big Bang è inadeguato quando lo si voglia utilizzare per descrivere l'origine vera e propria dell'Universo.

Ben lungi dal disarmare di fronte a difficoltà concettuali, i fisici hanno invece considerato, quello della singolarità, un problema stimolante che aveva bisogno, per essere risolto, di idee originali e coraggiose. E in effetti le risposte appropriate e scientificamente corrette vennero fornite, alla fine, da una teoria, la meccanica quantistica, che era stata ideata già all'inizio del Novecento dal fisico tedesco Max Planck (1858-1947), ma che, prima di allora mai nessuno aveva pensato di utilizzare per spiegare l'origine dell'Universo.

Planck scoprì, non senza stupore, che un corpo radiante, come potrebbe essere ad esempio il filo incandescente di una lampadina, emetteva energia in quantità discrete e non con flusso continuo e graduale come suggeriva la teoria di quel tempo. La luce infatti, e tutta la radiazione elettromagnetica in genere, quindi anche le onde radio, i raggi X, le microonde e così via, era interpretata, con piena soddisfazione di tutti, come si trattasse di un fenomeno ondulatorio. Ora però Planck scopriva che, in alcuni casi, una tale teoria non poteva essere accettata, perché la radiazione mostrava un comportamento particellare, quindi antitetico a quello ondulatorio. I corpuscoli di energia a cui Planck dette il nome di «quanti», furono in seguito ribattezzati «fotoni» da Einstein.

Poco tempo dopo, un giovane aristocratico francese, con lontane origini italiane, certo Louis Victor de Broglie, morto nel 1987 alla bella età di 95 anni, ipotizzò nella sua tesi di laurea che, se la radiazione elettromagnetica si comportava in duplice modo (cioè come onda e come particella), anche gli oggetti materiali, e in particolare gli elettroni, forse possedevano la doppia natura. In effetti gli esperimenti dimostrarono in modo inequivocabile che gli elettroni, oltre al normale comportamento particellare, presentano anche quello ondulatorio. In seguito fu osservata la natura ondulatoria di altre particelle materiali, ma sempre di piccole dimensioni.

Nasceva in questo modo un dualismo onda-corpuscolo sia della radiazione, sia della materia ed essa metteva in luce come le teorie, impiegate per spiegare i fenomeni del mondo macroscopico, non potevano essere utilizzate per interpretare anche i fenomeni del mondo microscopico. Il comportamento duplice, ora da corpuscolo ora da onda delle particelle subatomiche, appariva infatti del tutto diverso da quello degli oggetti macroscopici, i quali non si comportano mai in modo ambiguo: un'entità macroscopica, ad esempio una palla da tennis, si comporta sempre come corpo materiale e mai come onda, e d’altra parte l’onda del mare non appare mai con le sembianze di un pallone. Questa osservazione dimostrava che mentre per interpretare i fenomeni macroscopici erano pienamente funzionali le teorie note, per spiegare il comportamento dei costituenti ultimi della materia si rendeva necessaria la formulazione di una nuova teoria. La diversità fra gli oggetti macroscopici e le entità più recondite della materia tuttavia non risiedeva semplicemente nelle dimensioni estremamente ridotte di queste ultime, ma in qualche cosa di più profondo ed essenziale che coinvolgeva la loro stessa natura. Le entità microscopiche della materia dovevano possedere, in altre parole, una natura tutta particolare, e molto diversa da quella dei corpi del mondo ordinario che appaiono ai nostri sensi duri, compatti e di forma definita.

La nuova teoria prenderà il nome di «meccanica quantistica» e sarà una teoria prettamente matematica. Dovendo infatti rinunciare, per i motivi che abbiamo appena esposto, alla possibilità di una rappresentazione visiva concreta di entità che a volte si comportano come onde, a volte come corpuscoli, la teoria si vedrà costretta a ripiegare sulla loro descrizione espressa nei simboli del linguaggio matematico astratto. La meccanica quantistica è infatti una teoria statistica che descrive le particelle atomiche in termini probabilistici.

A differenza però di altre discipline che si fondano anch'esse su metodi di analisi statistica, come per esempio quelle inerenti a problemi demografici o a quelli economici, la natura probabilistica della teoria quantomeccanica non è dovuta alla scarsa conoscenza dei particolari, ma, come abbiamo appena detto, alla specifica natura della materia stessa che non si lascia indagare nel suo profondo. In altre parole, per quanto riguarda le particelle ultime della materia, la conoscenza dei dettagli non sarebbe possibile nemmeno teoricamente. Questa constatazione condurrà al cosiddetto «principio di indeterminazione» formalizzato dal fisico tedesco Werner Heisenberg (1901-1976).

Affinché un oggetto possa essere studiato in termini scientifici, esso deve poter essere misurato. Quindi, da un punto di vista scientifico, per conoscere è necessario misurare: se non si può misurare non si può nemmeno conoscere. In verità non è sempre indispensabile eseguire materialmente la misurazione: difficoltà tecniche potrebbero rendere impossibile l'operazione. E’ necessario però che la misura stessa sia, almeno concettualmente, fattibile: per fare un esempio, è possibile immaginare di determinare il numero delle stelle presenti nella galassia di Andromeda, o camminare su Marte, anche se in pratica nessuno lo ha mai fatto. Ma non è possibile immaginare di viaggiare a velocità doppia della velocità della luce, o di dividere in due l'elettrone, perché rigorose leggi fisiche lo proibiscono.

A parte i limiti dettati dalle leggi fisiche che non possono essere violate, esiste tuttavia anche un principio di natura che impone delle restrizioni alla possibilità di cogliere, anche solo teoricamente, il valore esatto di una grandezza fisica. Questo è quanto afferma il principio di indeterminazione, a cui si è fatto cenno in precedenza. Cercheremo di capire nel prossimo numero quali potrebbero essere le conseguenze di una tale limitazione.

Parte IV

Recentemente i fisici hanno tentato d'indagare la natura
dell'Universo con l'ausilio della fisica quantistica
alla luce della quale non è per nulla assurdo immaginare
un Universo che si sia formato spontaneamente dal nulla.



Il principio di indeterminazione di Heisenberg, con il quale ci siamo lasciati nel numero precedente, afferma che non è possibile ottenere informazioni dirette (nemmeno in linea di principio) da oggetti di dimensioni molto piccole, a causa della particolare natura della materia. In conseguenza di queste limitazioni non è quindi nemmeno possibile immaginare la consistenza e le dimensioni dell'Universo all'atto della sua creazione, qualora lo stesso fosse effettivamente scaturito da una singolarità. Prima di vedere se esiste una possibilità alternativa, è necessaria una premessa di carattere generale.

Immaginiamo di trovarci nella necessità di dover estrarre delle informazioni dall'interno di uno spazio molto ristretto e di doverlo fare entro un tempo definito. Prima di azzardare una risposta dobbiamo chiederci se esiste eventualmente un limite alle dimensioni dello spazio e dell’intervallo temporale, o se le due grandezze possono essere ridotte di dimensione quanto si vuole. Ebbene, questo limite effettivamente esiste. Infatti, affinché da un luogo di esigue dimensioni possa uscire un'informazione di qualsiasi tipo, bisogna che in esso vi sia spazio sufficiente per contenere una certa quantità di energia, la quale, a sua volta, per poter portare con sé l'informazione, dovrebbe emergere da quel luogo e colpire il nostro occhio o un qualsiasi altro apparecchio rilevatore.

Il segnale che affiora dal nostro ambiente di dimensioni anguste, per quanto lo si possa immaginare rapidissimo, non potrà certo essere di durata nulla, altrimenti il segnale stesso non esisterebbe affatto. Se si trattasse ad esempio di un segnale luminoso, esso dovrebbe durare almeno il tempo sufficiente per permettere all'energia elettromagnetica, che lo caratterizza, di compiere un'oscillazione completa, cioè il tempo necessario per il formarsi di una singola onda; questo è un tempo indubbiamente molto breve, ma non nullo. Inoltre, si intuisce facilmente che, se l'onda è lunga, ci vuole più tempo perché si formi, se l'onda è corta, ci vuole meno tempo.

Ora si può dimostrare che quanto più corta è l'onda relativa ad un determinato segnale elettromagnetico, tanto maggiore è l'energia in essa contenuta, e quanto più lunga è l'onda tanto minore è l'energia posseduta: energia e lunghezza dell'onda che la trasporta sono quindi grandezze inversamente proporzionali. Per fare un esempio concreto si pensi ad una radiazione gamma che rappresenta un segnale molto energetico: essa è trasportata da un’onda molto corta, quindi di durata molto breve. Un segnale di bassa intensità, invece, come ad esempio un'onda radio, conterrà poca energia, ma sarà trasportato su di un'onda molto lunga e quindi si protrarrà molto a lungo nel tempo. Da quanto detto si deduce che, per avere un'informazione entro un intervallo di tempo molto piccolo, si devono impiegare energie molto grandi, e viceversa. Naturalmente, quello che abbiamo detto per l'energia di tipo elettromagnetico, vale per qualsiasi altra forma di energia, altrimenti sorgerebbero contraddizioni nelle leggi della fisica.

Planck calcolò quali avrebbero dovuto essere le grandezze fisiche minime al di sotto delle quali non sarebbe stato più possibile ottenere alcuna informazione, neppure in linea di principio. Risultò così, ad esempio per quanto riguardava le dimensioni lineari, che la lunghezza minima al di sotto della quale non era possibile compiere una misurazione doveva essere di 10-33 cm (una grandezza alcuni miliardi di miliardi di volte inferiore al raggio di un protone); dividendo questa minuscola lunghezza per la velocità della luce si ottiene il più piccolo intervallo di tempo misurabile:10-43 secondi. Lo spazio entro cui sarebbe ancora possibile indagare, non dovrebbe quindi avere dimensioni inferiori a 10-99 cm3; e, infine, la massa non doveva essere inferiore a 10-5 g, un valore quest'ultimo, se riferito alle grandezze precedenti, sorprendentemente alto. Queste sono le dimensioni minime, calcolate da Planck, al di sotto delle quali non sarebbe consentito, in alcun modo, l'accesso sperimentale.

Ritorniamo ora al problema dell'origine dell'Universo. Secondo la teoria della Relatività Generale, l'Universo, al tempo t=0, avrebbe dovuto essere di dimensioni nulle, una condizione teorica che è stata chiamata «singolarità» e che da un punto di vista fisico deve essere scartata, perché priva di significato. Si ricorderà che in seguito a questa osservazione abbiamo concluso che le leggi della fisica classica non sono in grado di descrivere lo stato dell'Universo fin dalla sua origine.

Cerchiamo ora di capire se sia possibile ottenere un risultato migliore, facendo ricorso alla meccanica quantistica. In questo caso, come abbiamo appena visto, non è consentito estrapolare il tempo, né le altre grandezze fisiche, fino al valore zero, perché anche in questo caso le leggi perdono di significato quando si scende al di sotto di certi valori minimi. Pretendere quindi di ottenere (anche solo teoricamente) una qualche informazione su ciò che potrebbe essere accaduto nell'Universo prima del tempo di Planck, semplicemente non ha senso.

A questo punto non rimangono che due possibilità: o aspettare che vengano scoperte nuove leggi fisiche applicabili agli oggetti di dimensioni nulle, ovvero che vengano avanzate teorie in grado di eliminare la singolarità, e nel frattempo rimanere a braccia conserte, oppure utilizzare ciò che abbiamo a disposizione per avanzare una risposta purchessia alla nostra domanda. In quest’ultimo caso dobbiamo immaginare che l'Universo possa essere emerso dal nulla, tutto intero e già bello e formato nei suoi contenuti essenziali, però di grandezza non inferiore alle dimensioni di Planck, per esempio sotto forma di “pallina” con un volume non inferiore a 10-99 cm3.

Quest'ultima eventualità non sarebbe per nulla assurda, perché la meccanica quantistica prevede che particelle di materia possano effettivamente emergere dal nulla all'improvviso e senza motivo ed inserirsi fra quelle già esistenti. La stessa teoria prevede però che subito dopo la loro comparsa tali particelle debbano sparire senza lasciare traccia di sé. Queste particelle che compaiono all'improvviso e poi scompaiono senza dare il tempo per la loro registrazione sono dette "virtuali" per distinguerle da quelle "reali", che invece resistono più a lungo.

Possiamo quindi immaginare l'Universo, all'inizio dei tempi, come qualcosa di estremamente piccolo (un'entità di dimensioni molto inferiori perfino a quelle di un elettrone) che compare dal nulla. Questa strana "pallina", però, invece che scomparire immediatamente, come prevedono le leggi di natura, avrebbe dovuto perdurare nel tempo e svilupparsi fino a diventare l'Universo che possiamo osservare. Il problema è ora di vedere se esistano leggi fisiche che consentano il verificarsi di un tale evento.



Parte V

I fisici ritengono che la materia e l’energia attualmente presenti
nell'Universo siano in realtà nulle in quanto perfettamente
bilanciate da una forma di energia negativa rappresentata dalla gravità.
In tal caso il Cosmo, già dall’inizio, sarebbe stato privo di materia e di energia.



Affermare che una particella di dimensioni ultramicroscopiche possa emergere improvvisamente dal nulla, sopravvivere per una frazione irrilevante di secondo, e quindi scomparire senza lasciare traccia di sé, non sarebbe in contraddizione con le leggi della meccanica quantistica. Quelle leggi affermano infatti che se una particella appare per un istante brevissimo, tale da non lasciare il tempo materiale per la sua rilevazione, è come se essa non fosse mai esistita. In una situazione del genere non risulterebbero nemmeno violate le leggi di conservazione della materia e dell'energia, cioè quelle leggi che affermano che in natura nulla può essere creato dal nulla e nulla può svanire nel nulla.

Come avevamo anticipato, le particelle create e distrutte prima di poter essere rilevate si dicono «virtuali», per distinguerle da quelle che sopravvivono per tempi più lunghi che sono dette «reali». Ci si potrebbe allora chiedere come si faccia a sapere se una particella virtuale è effettivamente esistita, quando non è possibile registrarla prima che scompaia. Ebbene, senza entrare nei dettagli, possiamo affermare che le particelle virtuali, quando compaiono, lasciano sulla materia reale delle tracce che possono essere registrate. La presenza delle particelle virtuali è nota quindi per via indiretta.

Utilizzando le nostre conoscenze di meccanica quantistica possiamo quindi immaginare l'Universo, agli inizi dei tempi, emergere improvvisamente dal nulla sotto forma di particella virtuale. In realtà i cosmologi chiamano «vuoto» il nulla da cui sarebbe scaturito l'Universo: un concetto che, come chiariremo subito, assume nella cosmologia quantistica un ruolo di fondamentale importanza.

Normalmente si pensa al vuoto come a ciò che rimane quando, da un dato luogo, si toglie tutto ciò che vi è contenuto. Questa idea di vuoto è stata profondamente modificata con l'avvento della meccanica quantistica. All'interno di questa teoria, infatti, il vuoto non è più il nulla in assoluto, perché in realtà esso è sede di un gran numero di eventi individualmente non rilevabili (perché protetti dal principio di indeterminazione), ma osservabili tutti assieme attraverso gli effetti della loro azione eccitante sullo spazio circostante. In definitiva, anche dove siamo convinti di vedere il vuoto, ossia il nulla, in realtà vi è tutta una serie di fenomeni connessi con la comparsa (e la scomparsa) di particelle virtuali e di "lampi" effimeri di energia.

L'Universo potrebbe quindi anch'esso essere comparso sotto forma di particella virtuale all'interno di questo cosiddetto «vuoto quantistico» ed essa avrebbe dovuto avere, all'inizio, dimensioni non inferiori a quelle imposte dai limiti di Planck. Ora però ci si chiede in che modo la particella primordiale da cui si sarebbe sviluppato l’Universo intero avrebbe potuto conservarsi e ingrandirsi, visto che le leggi impongono che una particella quantistica non possa sopravvivere che per frazioni irrilevanti di secondo.

In realtà, la meccanica quantistica afferma che in uno spazio "piatto" (ossia di enormi dimensioni), quale sarebbe quello in cui viviamo, una particella che emerge dal vuoto debba immediatamente sparire per non violare le leggi della conservazione dell'energia. Nell'Universo primordiale però lo spazio non era come quello attuale, ma fortemente incurvato e in quelle condizioni, dice sempre la teoria, non valgono le leggi che vigono nell'Universo attuale. Quindi in quella situazione del tutto particolare non ha senso parlare di conservazione dell'energia; anzi è stato dimostrato che in uno spazio curvo una particella quantistica sopravviva tanto più a lungo quanto più è leggera; così che, se fosse di massa nulla, sopravvivrebbe per sempre e il nostro Universo sicuramente aveva una massa molto piccola, quando emerse spontaneamente dal vuoto tanto che per esso i fisici hanno ritenuto più appropriata la definizione di «bolla», proprio a significare qualche cosa priva di materia e di energia, ma piena di potenzialità. Ora, se questa «bolla» emersa dal nulla fosse stata leggerissima (come d’altra parte dovrebbe essere una bolla), avrebbe avuto una vita quasi infinita.

Tuttavia qualora l'Universo all'inizio dei tempi fosse stato effettivamente di massa ed energia nulle (o quasi nulle), anche oggi dovrebbe esserlo, perché altrimenti risulterebbero, ora sì, violate le leggi di conservazione, prima ricordate. L'Universo attuale, come tutti possono osservare, è però tutt'altro che privo di materia e di energia. Come possiamo allora giustificare un bilancio materiale ed energetico nullo? Per farlo dobbiamo supporre che nell'Universo vi sia materia ed energia positiva, insieme con materia ed energia negativa.

Prima di procedere, è opportuno ricordare che materia ed energia sono due entità equivalenti, nel senso che la materia può trasformarsi in energia, e viceversa, come prevede la celeberrima equazione di Einstein: E=mc2 (E = energia, m = massa, c²= velocità della luce al quadrato). In virtù di questa legge, possiamo considerare tutta la materia e tutta l'energia presente nell'Universo, come l'equivalente di una massa (o di una quantità di energia) molto grande che assumeremo di segno positivo. Dall'altra parte vi è l'energia gravitazionale, che può essere considerata come una forma di energia (o di massa) negativa. Cerchiamo di spiegare perché.

Si immagini di dover allontanare due corpi che stanno vicini. Per farlo dovremo fornire loro energia allo scopo di superare la forza di gravità che li tiene uniti: ma l'energia fornita dall'esterno verrà assunta dai due corpi i quali si troveranno, una volta lontani l’uno dall’altro, dotati di una massa maggiore di prima, avendo trasformato l'energia acquisita in materia. Immaginiamo ora l'operazione inversa, cioè l'avvicinamento spontaneo di due corpi lontani, attirati dalla forza di gravità: essi, a mano a mano che si avvicinano, perdono massa (che si allontana sotto forma di energia) divenendo più leggeri. La gravità può essere quindi considerata una forma di energia negativa, in quanto, quando si manifesta, lo fa sottraendosi dall'energia positiva della materia.

Se ora si somma algebricamente l'energia negativa della gravità con quella positiva dell'equivalente massa-energia presente nell'Universo, si ottiene un totale uguale a zero (o almeno molto vicino a zero). Così hanno calcolato i fisici.

Per concludere, se l'attuale massa-energia totale dell'Universo fosse veramente prossima allo zero, anche quando esso emerse dal vuoto sotto forma di particella quantistica (o bolla), massa ed energia dovevano essere nulle o quasi nulle.

Rimane ancora da chiarire il modo in cui l'Universo, una volta emerso dal nulla, si sia poi potuto espandere e sviluppare e questo sarà oggetto di indagine nei prossimi numeri.



Parte VI

È paradossale il fatto che per comprendere l'oggetto
più grande che ci sia, cioè l'Universo intero,
si debba ricorrere alle leggi che governano le entità più piccole,
cioè quelle trattate dalla meccanica quantistica.



Quello del Big Bang rappresenta il modello di Universo attualmente più accreditato. Come è noto, in campo scientifico si fa largo uso di modelli per avere una rappresentazione sia pur semplificata e incompleta di un oggetto inaccessibile all'osservazione diretta. Un modello scientifico può essere paragonato al modellino di un’automobile, che riproduce alcune caratteristiche dell’automobile vera, ma non è identico ad essa. Questi strumenti concettuali, pur avendo validità limitata, risultano tuttavia utili agli scienziati perché, oltre a dare unità e coerenza agli oggetti naturali che simboleggiano, vengono anche utilizzati per comprendere meglio il fenomeno dal quale gli stessi hanno tratto origine. Come un qualsiasi modello, anche quello del Big Bang non ha dunque la pretesa di rappresentare tutti i dettagli della struttura dell'Universo reale, ma solo alcuni suoi aspetti essenziali; esso ad esempio considera l’Universo come un fluido perfetto di materia e radiazione distribuito in modo assolutamente uniforme su tutto lo spazio: l’agglomerarsi della materia in stelle e galassie viene ignorata salvo poi riprendere questo particolare argomento quando si decida di indagare sull’origine e sulla distribuzione dei corpi celesti.

Nonostante certi risultati favorevoli, il modello standard del Big Bang poneva tuttavia alcune questioni che lasciavano perplessi, ma prima di parlarne bisogna accennare al fatto che questo non è l’unico modello che venne proposto utilizzando la teoria della Relatività generale di Einstein e l’osservazione del red shift delle galassie.

Fu proprio quel Fred Hoyle che aveva deriso il modello di Gamow definendolo un “grande bum” a proporne uno alternativo. Insieme ai colleghi austriaci Hermann Bondi e Thomas Gold con i quali durante la seconda guerra mondiale aveva lavorato al perfezionamento degli apparecchi radar, Hoyle presentò un modello da contrapporre a quello dell'Universo in evoluzione che prese il nome di «Modello di Universo in stato stazionario» e rappresentò l'ultimo disperato tentativo di salvare l'idea dell'immobilismo cosmico.

Per non cadere in contraddizione con i fondamenti primi della relatività generale - pensarono i tre scienziati - l'aspetto dell'Universo su larga scala dovrebbe rimanere immutato non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Pertanto, benché questi studiosi convengano sul fatto che l'Universo sia in espansione, ciò nondimeno la densità della materia sarebbe dovuta rimanere costante nel tempo e quindi, a mano a mano che le galassie si allontanavano fra loro e lo spazio diventava sempre più vuoto, nuove galassie si sarebbero dovute formare per compensare il diradarsi delle vecchie.

Il modello prevedeva quindi una cosa a prima vista assurda: la creazione di materia dal nulla. Esisterebbe infatti, secondo Hoyle e i suoi colleghi, un «campo creazionale» (in analogia con il «campo gravitazionale») generato dalla materia già esistente, in grado di produrne di nuova: il ritmo con cui avverrebbe la formazione di materia sarebbe tuttavia lentissimo (si formerebbe non più di un atomo di idrogeno per metro cubo ogni miliardo di anni) e comunque tale da rendere impossibile il suo rilevamento.

Se quindi da un lato il modello di Universo stazionario poneva il problema sconcertante della creazione di materia dal nulla, dall'altro ne evitava altri, non meno imbarazzanti, come ad esempio quello dell'origine. Infatti secondo Hoyle l’Universo non ebbe inizio, né avrà fine: esso è sempre esistito ed esisterà per sempre.

Nella storia della scienza, tuttavia, è capitato spesso che le teorie più originali e convincenti siano state poi impietosamente demolite da osservazioni insignificanti e fortuite: così avvenne anche nel caso del modello dello stato stazionario. La radiazione cosmica di fondo, quella dei 3 gradi K, individuata dai due tecnici americani dei telefoni, di cui abbiamo già parlato, non trovava infatti giustificazione coerente all'interno del modello di Hoyle, che dovette pertanto essere abbandonato. In verità la scoperta di Penzias e Wilson, per la quale i due tecnici ricevettero il premio Nobel nel 1978, non fu l'unica evidenza osservativa contraria al modello dello stato stazionario; in precedenza si era ad esempio osservato che le quasar, i corpi celesti di dimensioni di poco superiori a quelli delle stelle, ma che irradiano quantità colossali di energia, erano più abbondanti a grande che a piccola distanza. Ora, poiché guardare in lontananza corrisponde a guardare indietro nel tempo, si doveva concludere che l'aspetto dell'Universo di miliardi di anni fa fosse diverso dall'attuale, smentendo quel principio cosmologico perfetto che prevedeva un Universo identico in ogni luogo e in ogni tempo, al quale si era appellato Hoyle.

Accenniamo ora a due osservazioni a cui il modello standard del Big Bang non era in grado di dare risposta coerente. Per prima cosa ci si chiedeva attraverso quale meccanismo si sarebbe potuto formare dal niente l'Universo intero; in secondo luogo, anche qualora l'Universo fosse effettivamente apparso dal nulla, da dove avrebbe potuto poi trarre l'energia necessaria a produrre un'esplosione di tale violenza da scaraventare lontano le galassie, tanto che oggi, dopo 15 miliardi di anni da quell'evento, stanno ancora viaggiando a grandissima velocità.

Alla prima domanda sta tentando di dare risposta il fisico inglese Stephen Hawking, una specie di fenomeno vivente che rappresenta un caso eccezionale, non tanto e non solo per il suo eccelso valore scientifico (occupa la cattedra lucasiana di matematica - che un tempo fu di Newton - a Cambridge, ed è considerato il più grande fisico teorico vivente), ma piuttosto per le sue condizioni di salute estremamente precarie. Una grave malattia del sistema nervoso lo ha infatti reso praticamente immobile su di una sedia a rotelle da oltre trent’anni. Egli, nonostante le gravissime menomazioni (per evitare che si soffocasse è stato anche necessario asportargli la laringe, privandolo dell’uso della parola), ha mantenuto intatte le capacità intellettive e lavora scrivendo e comunicando per mezzo di un computer controllato da un interruttore, che aziona con un solo dito. Intervenendo a Padova, con l'aiuto di un interprete, nella sala dell'Università in cui teneva lezione Galilei, annunciò, nel 1983, di essere riuscito a derivare la funzione d'onda che descrive l'Universo al suo apparire. La funzione d'onda è un'espressione matematica prodotta dalla meccanica quantistica che definisce, in termini probabilistici, le proprietà di una particella di piccole dimensioni. Le proprietà degli elettroni che si muovono intorno al nucleo atomico, ad esempio, sono definite anch'esse da un’analoga funzione d'onda (il cosiddetto “orbitale”).

La necessità della descrizione del moto di una particella in termini probabilistici deriva dalla impossibilità, imposta dal principio di indeterminazione, di raccogliere misure precise relativamente alla traiettoria seguita da una particella di dimensioni molto piccole. E, come per l'elettrone in movimento è possibile una sua descrizione solo in termini probabilistici, così anche per l'Universo al suo apparire (cioè quando era di dimensioni molto più piccole dell'elettrone stesso) non è possibile altra descrizione se non negli stessi termini.

Prima di rispondere alla domanda riguardante il luogo da cui l’Universo appena emerso dal nulla avrebbe estratto l’energia necessaria per espandersi e riempirsi a sua volta di materia e radiazione è necessario spendere qualche parola sulle cosiddette grandi teorie unificate.

http://www.cosediscienza.it/astro/18.%20MODELLI%20DI%20UNIVERSO.htm

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