venerdì 29 febbraio 2008

IL BIG BANG CICLICO

Il "Big Bang" è una contrazione ciclica
L'Universo è nato nel momento esatto in cui c'è stata l'esplosione del Big Bang. Questa la teoria che i fisici di tutto il mondo hanno di fatto accettato e che da decenni viene ritenuta plausibile. Oggi, tuttavia, c'è chi ipotizza una nuova e altrettanto interessante teoria. Secondo il fisico computazionale Neil Turok l'enorme esplosione avvenuta all'alba dei tempi non fu altro che una delle tante contrazioni che il cosmo ripete ciclicamente. Il modello proposto dallo scienziato sta riscuotendo parecchio interesse nell'ambiente e molti colleghi di Turok stanno prendendo sul serio le sue posizioni.
Il Big Bang non è altro che una fase di un ciclo infinito - Neil, che insegna alla Cambridge University, ritiene che il Big Bang rappresenta solo una fase di un ciclo di espansioni e contrazioni del cosmo che si ripete all'infinito. Stando a quanto da lui teorizzato, sia il tempo che l'universo non hanno né inizio né fine.
Una teoria che ha la sua logica - Un'idea bizzarra, ma per Turok non è più insolita della classica spiegazione che generalmente viene attribuita al Big Bang: uno specifico fenomeno che sfugge alle leggi della fisica come noi le conosciamo, in cui tutte le equazioni puntano all'infinito e "tutte le proprietà che normalmente usiamo per descrivere l'Universo e ciò che esso contiene vengono a cadere".
L'Universo esisterebbe in almeno dieci dimensioni parallele - Tale incoerenza ha portato il fisico a porsi nuove domande sul Big Bang e a chiedersi se lo stesso non potesse essere spiegato nell'ambito della teoria delle stringhe, ipotesi controversa, finora non verificata, secondo cui l'Universo esisterebbe in almeno dieci dimensioni parallele e sarebbe formato da blocchi costitutivi unidimensionali denominati appunto stringhe.
La teoria delle stringhe - Stando a una versione delle teoria delle stringhe nota come teoria-m, spiega Turok, "la settima extra dimensione dello spazio è costituita dal gap che separa due oggetti paralleli denominati membrane. Sarebbe come lo spazio che separa due specchi paralleli. La domanda è: cosa accadrebbe se i due specchi entrassero in collisione? Forse ne deriverebbe il Big Bang".
Ma cosa c'era prima della "nascita" dell'attuale Universo? - Nella teoria di Turok esisteva un Universo per molti aspetti simile a quello oggi conosciuto, caratterizzato da bassa densità di materia e da un qualcosa denominata energia oscura. Immaginando un Universo del genere, ma in cui l'energia oscura interna sia instabile, ne deriva che il decadimento della stessa porta le due membrane ad unirsi, generando radiazioni e successivamente una espansione che dà origine a stelle e galassie. A quel punto l'energia oscura riprende il sopravvento. È l'energia che deriva dalla forza di attrazione tra le due membrane, che le riporta a scontrarsi. Quindi si ha uno scoppio seguito da un altro scoppio e poi da un altro ancora. Non c'è un inizio dei tempi. Il cosmo è sempre stato lì.
Prima di questo Universo ce n'era un altro simile - Il magazine Wired, incuriosito dalla teoria ha intervistato il fisico soprattutto per capire meglio se in un qualche momento vi sia stato comunque un inizio. "Immaginate di avere una stanza piena d'aria, con tutte le molecole che rimbalzano da una parte all'altra - ha spiegato lo scienziato -. Per la maggior parte del tempo, le molecole si distribuiscono in maniera uniforme, ma una volta su un milione di miliardi di anni vanno a finire nell'angolo della stanza. Guardando la stanza e spostando avanti le lancette dell'orologio, le molecole ritornano uniformi. Ma poi la situazione si capovolge, e si indirizzano nuovamente nell'angolo, per poi distaccarsene di nuovo, all'infinito. Se la metafora è corretta, questo vuol dire che il tempo per un po' può correre in avanti, poi tornare indietro, e quindi accelerare di nuovo. Questo è il quadro generale: siamo ancora ben lontani dal comprendere totalmente il fenomeno, ma è appunto questa la mia scommessa. Il mio interesse principale resta comunque il problema della singolarità. Se non riusciamo a capire cosa sia accaduto alla singolarità da cui siamo nati, allora non potremo mai comprendere fino in fondo le leggi della fisica delle particelle. Sarei ben felice di individuare le origini almeno dell'ultima singolarità che abbiamo vissuto e lasciare le altre ai posteri".
Come si testa la sua teoria? - "Se l'Universo fosse nato da zero per poi espandersi in maniera esponenziale - conclude Turok - ne sarebbero derivate delle onde gravitazionali in viaggio attraverso lo spazio/tempo. Queste onde avrebbero riempito l'universo, generando un sistema di echi dell'inflazione stessa. Nel nostro modello, la collisione delle due membrane non genera nessun onda. Quindi se potessimo misurare le onde, saremmo anche in grado di verificare quale sia la teoria corretta. Stephen Hawking ha scommesso con me che avremmo trovato i segni dell'inflazione. Io ho scommesso che non li troveremo, e vi assicurò che non vincerà lui, potrei puntarci qualsiasi somma. Finora lui non ha parlato di una cifra precisa, ma è molto più ricco di me, quindi ben venga, sarà un piacere batterlo".
http://notizie.tiscali.it/articoli/scienza/08/febbraio/29/universo_bigbang_fenomeno_ciclico_555.html?stampa

domenica 10 febbraio 2008

ORIGINE DELL'ASTRONOMIA

Già in tempi remoti, l'alternarsi del giorno e della notte e le osservazioni delle posizioni del Sole, della Luna e delle stelle suscitarono l'interesse dell'uomo, che ben presto iniziò a sfruttare il moto regolare degli astri per misurare il tempo e per orientarsi sulla superficie terrestre. L'astronomia si sviluppò a partire dalla necessità di risolvere piccoli problemi quotidiani quali, ad esempio, quello di individuare la propria posizione durante i lunghi viaggi, oppure di stabilire il periodo adatto per la semina e la mietitura delle messi, o per le celebrazioni religiose.

I popoli antichi notarono che l'aspetto del cielo mutava con regolarità. Il Sole, che divide il giorno dalla notte, sorge ogni mattina in una certa direzione, l'oriente, si muove nel cielo nel corso della giornata e tramonta nella direzione opposta, l'occidente. Di notte sono visibili migliaia di stelle che seguono un percorso simile, spostandosi attorno a un punto fisso, noto come polo celeste.

Anche la diversa durata del dì e della notte venne notata già nell'antichità. Nel corso delle giornate più lunghe il Sole, visto dall'emisfero boreale, sorge spostato verso nord rispetto all'est e raggiunge la sua massima altezza in cielo a mezzogiorno; nel periodo delle giornate corte, invece, sorge spostato verso sud e rimane più basso sull'orizzonte. Inoltre, come compreso per la prima volta dagli egizi, nel corso dell'anno cambia continuamente la sua posizione relativa rispetto alle stelle.

In seguito fu osservato che il Sole, la Luna e cinque pianeti brillanti si muovono all'interno di una stretta fascia di cielo detta zodiaco. La Luna percorre lo zodiaco velocemente, superando il Sole ogni 29,5 giorni circa, intervallo di tempo a cui venne dato il nome di mese sinodico. Osservando le stelle, gli antichi tentarono di organizzare una ripartizione del tempo in giorni, mesi e anni, stabilendo un calendario.

Il Sole e la Luna attraversano lo zodiaco da occidente verso oriente, mentre i cinque pianeti brillanti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) si muovono verso occidente, eccetto in alcuni periodi in cui sono animati da un moto retrogrado. In queste fasi i pianeti sembrano muoversi in modo casuale verso oriente, compiendo dei cammini chiusi nel corso del loro spostamento. Fin dai tempi antichi, la gente ha immaginato che gli eventi del cielo, e in modo particolare il moto dei pianeti, potessero in qualche modo influire sulle vicende terrene e questa credenza, che oggi rappresenta la base dell'astrologia, ha incoraggiato lo studio dei moti planetari; così, si può dire che in passato, l'interesse astrologico abbia in parte contribuito al progresso dell'astronomia.

Gli antichi greci portarono importanti contributi teorici all'astronomia. Il sistema tolemaico, proposto dall'astronomo Claudio Tolomeo nel II secolo d.C., prevedeva che la Terra fosse immobile al centro dell'universo e che intorno a essa le stelle e i pianeti compissero un complicato moto di rivoluzione: mentre ruotavano su piccole orbite circolari dette epicicli, descrivevano un'orbita più ampia intorno alla Terra, detta deferente. Il sistema tolemaico fu ritenuto valido per più di un millennio, fino a quando Niccolò Copernico avanzò la sua teoria eliocentrica.

Dopo secoli in cui si era creduto che la Terra fosse il centro dell'universo intorno a cui ruotano tutti i corpi celesti, Niccolò Copernico propose nel XVI secolo il suo modello eliocentrico, con il Sole fisso al centro del sistema solare e tutti gli altri pianeti in rotazione intorno a esso. La teoria copernicana, proclamata un'eresia dalla Chiesa e dagli scienziati del tempo, trovò conferma in seguito grazie al genio di Keplero e di Galileo. In questa incisione del 1661, attribuita ad Andrea Cellarius, la Terra è rappresentata in quattro posizioni diverse occupate nel corso dell'anno, e i pianeti appaiono correttamente posizionati su orbite centrate nel Sole. Il cerchio più esterno rappresenta la fascia dello zodiaco, la porzione di cielo che il Sole sembra attraversare nel suo moto apparente osservato dalla Terra.

http://www.giorgiotave.it/sistema_solare/studi.php

I PIANETI

Quarto pianeta del sistema solare, in ordine di distanza dal Sole. Presenta varie analogie con la Terra, ad esempio la durata del giorno e l'alternarsi di un ciclo di stagioni, e per questo motivo è stato oggetto di numerose missioni volte a rivelare la presenza di forme di vita sulla sua superficie. Marte ha due piccole lune, fortemente craterizzate, Phobos e Deimos, aventi diametro rispettivamente di 21 km e 12 km; si tratta forse di asteroidi catturati dal pianeta all'inizio della sua evoluzione.



Osservato senza l'ausilio di un telescopio, Marte si presenta come un oggetto rossastro di luminosità variabile. Nel momento di massima vicinanza alla Terra (55 milioni di km), è dopo la Luna e Venere l'oggetto più luminoso del cielo notturno. Le condizioni migliori per l'osservazione diretta si verificano quando il pianeta si trova in opposizione, al momento di massima vicinanza; queste favorevoli circostanze si ripetono ogni 15 anni circa.

Per mezzo di un telescopio, sono visibili sulla superficie di Marte ampie regioni di un arancione brillante, alcune aree più scure e altre rossastre, i cui confini variano seguendo il ciclo delle stagioni marziane. A causa dell'inclinazione dell'asse di rotazione e dell'eccentricità dell'orbita, il pianeta è caratterizzato da estati meridionali corte e relativamente calde e da inverni lunghi e freddi. Il colore rossastro è dovuto alla superficie fortemente ossidata, mentre le aree scure sono probabilmente composte da rocce simili ai basalti terrestri, con una superficie ossidata e alterata dagli agenti atmosferici. Le aree luminose sembrano di composizione simile e sono ricoperte da polveri fini. La scapolite, un minerale abbastanza raro sulla Terra, è diffusa ovunque sulla superficie marziana e potrebbe forse liberare nell'atmosfera notevoli quantità di anidride carbonica (CO2).

Ai poli del pianeta vi sono ampie calotte brillanti, apparentemente composte da ghiaccio, i cui confini si allargano e si ritirano secondo le stagioni. Questo ciclo stagionale è seguito da almeno due secoli: ogni autunno marziano si formano in prossimità dei poli delle nubi brillanti al di sotto delle quali si deposita un sottile strato di anidride carbonica. Durante la primavera, alla fine della lunga notte polare, queste nubi polari si dissipano e i confini delle calotte glaciali si ritirano gradualmente verso i poli, evaporando a causa della luce solare. A metà estate la contrazione delle calotte si arresta e fino all'autunno successivo sopravvive un brillante deposito di brina e ghiaccio.

Oltre alle nubi polari, composte prevalentemente da anidride carbonica, vi sono foschie d'alta quota e nubi di ghiaccio. Queste ultime derivano dal raffreddamento di masse d'aria che si innalzano sopra le alture. Ampie nubi giallastre, che trasportano la polvere sollevata dai venti, sono particolarmente evidenti durante le estati nell'emisfero meridionale.

L'idea che su Marte potessero esistere forme di vita risale a molto tempo fa. Nel 1877 l'astronomo italiano Giovanni Schiaparelli annunciò di aver osservato sulla superficie del pianeta un complesso sistema di canali. L'astronomo statunitense Percival Lowell rese pubblica la scoperta parlando di canali artificiali e ipotizzando che queste strutture rappresentassero il tentativo effettuato da esseri intelligenti di irrigare un pianeta arido. Le osservazioni dalle sonde hanno però mostrato che sul pianeta non vi sono canali artificiali, e altre presunte prove di vita su Marte si sono rivelate inesistenti. Non vi è traccia di materiale organico e i cambiamenti stagionali delle aree superficiali non sono dovuti a un ciclo vegetale ma ai venti periodici che spirano trasportando sabbia e polvere. L'acqua si trova sotto forma di ghiaccio, solo ai poli o sotto la superficie e, come vapore o come cristalli di ghiaccio, in piccole tracce nell'atmosfera. Inoltre l'atmosfera è molto sottile, e la superficie del pianeta è esposta non solo a una dose letale di radiazione ultravioletta, ma anche agli effetti chimici di sostanze altamente ossidanti come il perossido di idrogeno.

Una questione più complessa è quella che riguarda la possibilità che la vita sia esistita in passato, dato che vi sono prove di grandi cambiamenti climatici e di un'atmosfera che una volta deve essere stata più calda e più densa di adesso. Grande clamore ha sollevato la notizia divulgata dalla NASA nel 1996 secondo la quale, in un meteorite marziano trovato in Antartide, vi sono tracce di organismi simili a batteri. Ricerche sono in atto per confermare questa clamorosa scoperta. Una risposta definitiva si potrà avere solo quando si potranno prelevare campioni del suolo marziano da analizzare accuratamente in laboratorio. Sono in corso numerosi studi per realizzare, nel corso del XXI secolo, una missione verso Marte con equipaggio a bordo

Marte Venere Terra Giove Urano Plutone Saturno Nettuno

TORNA SU

Mercurio
Il pianeta più vicino al Sole. Ha diametro di 4880 km, pari a circa un terzo di quello terrestre e densità media pressoché uguale a quella della Terra. Mercurio ruota intorno al Sole a una distanza media di circa 58 milioni di km, descrivendo un'orbita ellittica, con periodo di rivoluzione di circa 88 giorni e periodo di rotazione di 59 giorni. Poiché la sua superficie è composta da rocce irregolari, porose e scure, esso riflette poco la luce solare.

Studi spettroscopici indicano la presenza di una sottile atmosfera, contenente prevalentemente sodio e potassio emessi dalla crosta del pianeta. Le collisioni con altri corpi formati all'inizio della storia del sistema solare, potrebbero aver "strappato" i materiali più leggeri, e ciò spiegherebbe la densità relativamente alta di Mercurio. La forza di gravità sulla superficie del pianeta è circa un terzo di quella sulla superficie terrestre.

La sonda spaziale Mariner 10, che sorvolò Mercurio due volte nel 1974 e una volta nel 1975, trasmise immagini di una superficie costellata di crateri, con qualche somiglianza con quella lunare, e registrò una temperatura di circa 350 °C sul lato esposto al Sole e di circa -150 °C sul lato in ombra. Il Mariner 10 misurò anche un campo magnetico d'intensità pari all'1% di quello terrestre. La superficie di Mercurio, a differenza di quella della Luna, è solcata da lunghe scarpate, che risalgono forse al periodo di contrazione che il pianeta attraversò durante il processo di raffreddamento, all'inizio della sua storia. Nel 1991 potenti radiotelescopi a terra rivelarono segni di vasti strati di ghiaccio nelle regioni polari del pianeta, aree che non erano state rilevate dal Mariner 10.

Marte Mercurio Terra Giove Urano Plutone Saturno Nettuno

TORNA SU

Venere

Secondo pianeta del sistema solare, in ordine di distanza dal Sole. Dopo la Luna, Venere è l'oggetto più brillante del cielo notturno. Nell'antichità era detto Vespero, o stella della sera, quando appariva al tramonto, e stella del mattino oppure Phosphoros o Lucifero, quando era visibile poco prima dell'alba. A causa delle rispettive posizioni di Venere, Terra e Sole, il pianeta infatti non è mai visibile più di tre ore prima dell'alba e per oltre tre ore dopo il tramonto.

Osservato al telescopio, Venere mostra un ciclo di fasi simili a quelle della Luna, che si ripetono con un periodo sinodico di 1,6 anni. Raggiunge la sua massima brillantezza (con magnitudine -4,4) durante la fase crescente. I transiti sul disco solare sono rari, e avvengono a coppie, a intervalli di poco più di un secolo. I prossimi due sono previsti per il 2004 e il 2012.

Venere è completamente coperto di nubi; ciò naturalmente rappresenta un ostacolo per le osservazioni dirette dalla Terra e la maggior parte delle informazioni di cui disponiamo sono state fornite dalle sonde spaziali, in particolare da quelle che si sono posate sulla superficie del pianeta attraversando la densa atmosfera che lo circonda.

Marte Mercurio Venere Giove Urano Plutone Saturno Nettuno

TORNA SU

TERRA

Il primo sorvolo di Venere venne effettuato dalla sonda Mariner 2, lanciata dagli Stati Uniti nel 1962, seguita dal Mariner 5 nel 1967 e dal Mariner 10 nel 1974. A partire dagli anni Sessanta furono inviate verso il pianeta anche le numerose sonde sovietiche del tipo Venera; le sonde Vega 1 e 2, dirette verso la cometa di Halley nel 1984, sorvolarono Venere sganciando delle capsule sulla sua superficie. Informazioni dettagliate vennero fornite dalle due navicelle statunitensi Pioneer Venus dotate di speciali radar e sofisticati strumenti di misura. La sonda Magellano, lanciata nel 1989, iniziò l'anno successivo a trasmettere immagini radar del pianeta. Esse sono state elaborate al computer per fornire una spettacolare rappresentazione tridimensionale della superficie


Terzo pianeta del sistema solare, in ordine di distanza dal Sole; unico pianeta, allo stato attuale delle conoscenze, che ospiti forme di vita.

Un'atmosfera ricca di ossigeno, temperature moderate, la presenza di acqua e una composizione chimica varia sono le condizioni che permettono la vita sulla Terra. Il pianeta è costituito da rocce e minerali, presenti allo stato solido in superficie e allo stato fluido negli strati più interni.

Dal momento che la superficie terrestre presenta, da regione a regione, curvature diverse, la forma del pianeta non è assimilabile a quella di un solido geometrico regolare. Trascurando i rilievi e le irregolarità superficiali, essa può essere in prima approssimazione ricondotta a un ellissoide di rotazione, vale a dire al solido geometrico che si ottiene facendo ruotare un'ellisse intorno al suo asse minore.

Calcoli recenti, basati sullo studio delle irregolarità orbitali di satelliti artificiali, hanno permesso di appurare che la Terra presenta effettivamente una forma di ellissoide, ma lievemente deformata ?a pera?: la differenza tra il raggio minimo equatoriale e il raggio polare (distanza tra il centro della Terra e il Polo Nord) è di circa 21 km, inoltre il Polo Nord "sporge" rispetto all'ellissoide regolare di circa 10 m, mentre il Polo Sud è ?schiacciato? di 31 m.

La Terra può essere schematicamente suddivisa, procedendo dall'esterno verso l'interno, in cinque parti: l'atmosfera (gassosa), l'idrosfera (liquida), la litosfera (solida), il mantello e il nucleo, in parte solidi. L'atmosfera è l'involucro gassoso che circonda il corpo del pianeta: ha uno spessore di oltre 1100 km, ma data la rarefazione progressiva con la quota, circa la metà della sua massa è concentrata nei primi 5600 m.

Marte Mercurio Venere Terra Urano Plutone Saturno Nettuno


TORNA SU

Giove
Quinto pianeta in ordine di distanza dal Sole e primo come dimensioni tra quelli del sistema solare. Ha volume 1400 volte maggiore di quello della Terra, ma la sua densità media è circa un quarto di quella terrestre: ciò indica che esso è formato da gas piuttosto che da metalli e rocce come i pianeti interni.

Orbita attorno al Sole a una distanza media di circa 780 milioni di chilometri (5,2 volte maggiore di quella della Terra), compiendo una rivoluzione completa in 11,9 anni; il suo periodo di rotazione è di 9,9 ore e non è uniforme. La rapida rotazione produce uno schiacciamento ai poli del pianeta, visibile anche al telescopio. Giove mostra delle bande, rese più appariscenti dai colori pastello delle nubi, dovute alla presenza di forti correnti atmosferiche; una delle strutture più notevoli è la famosa regione ovoidale color ocra nota come Grande Macchia Rossa. I colori sono dovuti a tracce di composti che si formano a seguito di reazioni chimiche indotte dalla luce ultravioletta, da scariche elettriche e dal calore; alcuni di questi composti sembrano simili alle molecole organiche che si formarono sulla Terra primordiale e che gettarono le basi della vita.

Sono stati scoperti finora sedici satelliti di Giove. I quattro maggiori (Io, Europa, Ganimede e Callisto) vennero individuati da Galileo, nel 1610.

Le moderne osservazioni mostrano che la densità media dei satelliti principali varia con la distanza dal pianeta, in modo simile a quanto accade per i pianeti del sistema solare. Io ed Europa, vicini a Giove, sono densi e rocciosi come i pianeti interni (Mercurio, Venere): Ganimede e Callisto, più lontani, sono composti perlopiù da ghiaccio d'acqua e hanno densità relativamente bassa. Probabilmente durante il processo di formazione, sia dei pianeti sia di questi satelliti, la vicinanza al corpo centrale (rispettivamente il Sole o Giove) impedì la condensazione delle sostanze più leggere.

La crosta ghiacciata di Callisto e Ganimede è segnata da numerosi crateri, segni di un antico bombardamento probabilmente da parte di nuclei di comete, simile al bombardamento di asteroidi che subì la Luna. Al contrario, la superficie di Europa è estremamente liscia: il satellite è ricoperto da uno strato di ghiaccio, percorso da una fitta e intricata rete di fratture, sotto il quale potrebbe esserci acqua liquida.

La superficie del satellite più interessante, Io, ha un aspetto singolare: vi sono zone giallastre, marroni e bianche punteggiate di nero. Io è sconvolto dal vulcanismo: circa dieci vulcani erano in eruzione nel 1979, al momento del passaggio del Voyager, e vi sono prove di eruzioni successive. Dalle bocche vulcaniche viene emesso biossido di zolfo che si condensa sulla superficie, formando un'atmosfera locale temporanea.

Gli altri satelliti di Giove sono molto più piccoli e meno studiati di quelli galileiani. Gli otto più esterni formano due gruppi distinti e sono probabilmente dei corpi catturati dall'intenso campo gravitazionale del pianeta.

Vicino al pianeta, le sonde Voyager scoprirono un debole sistema di anelli. Il materiale di cui sono formati potrebbe essere prodotto dalla disintegrazione di piccolissimi satelliti che si muovono all'interno degli anelli stessi, oppure dal satellite Metis che si trova appena all'esterno di essi.


Marte Mercurio Venere Terra Giove Urano Plutone Nettuno

TORNA SU

Saturno


Sesto pianeta in ordine di distanza dal Sole e secondo come dimensioni tra quelli del sistema solare. La caratteristica principale di Saturno è il sistema di anelli, osservato per la prima volta da Galileo nel 1610 e descritto correttamente dall'astronomo olandese Christiaan Huygens. Nel 1655, avendo necessità di ulteriore tempo per verificare la propria osservazione senza perderne la paternità, questi scrisse un anagramma le cui lettere, opportunamente riarrangiate, formavano una frase latina che, tradotta, dice: "Saturno è circondato da un disco piatto e sottile, che non tocca il pianeta in alcun punto, inclinato rispetto all'eclittica". Gli anelli sono stati nominati nell'ordine in cui sono stati scoperti e, dall'interno verso l'esterno, sono noti come D, C, B, A, F, G, ed E. Oggi si sa che essi, in realtà, sono composti da oltre 100.000 anelli sottilissimi.

Osservato dalla Terra, Saturno appare come un oggetto giallastro molto luminoso. Attraverso un telescopio sono facilmente visibili gli anelli A e B, mentre gli anelli D ed E si vedono solo in condizioni di visibilità ottimale. Gli strumenti a terra hanno mostrato nove satelliti e, nella parte superiore dell'atmosfera, deboli bande chiare e scure parallele all'equatore.

La conoscenza del pianeta è migliorata notevolmente dopo la spedizione delle tre sonde statunitensi Pioneer 11 (settembre 1979), Voyager 1 (novembre 1980) e Voyager 2 (agosto 1981). Esse trasportavano fotocamere e strumenti per l'analisi dell'intensità e della polarizzazione della luce nelle regioni visibile, ultravioletta e infrarossa dello spettro elettromagnetico. Erano inoltre equipaggiate con strumenti per lo studio del campo magnetico del pianeta, e per la rivelazione di particelle cariche e di grani di polvere nel mezzo interplanetario.

Gli anelli si allungano fino a una distanza di 136.200 km dal centro di Saturno, ma in alcuni punti sono spessi solo 5 m. Sono probabilmente composti da aggregati di rocce, gas ghiacciati e ghiaccio d'acqua di piccole dimensioni.Nell'apparente separazione tra gli anelli A e B, osservata dall'astronomo Giovanni Cassini, si trovano cinque deboli anelli, ripresi dalle telecamere dei Voyager. Gli ampi anelli B e C si sono forse formati da centinaia di anelli sottili, alcuni leggermente ellittici, che mostrano piccole variazioni di densità, provocate dall'interazione gravitazionale tra gli anelli e i satelliti. Le immagini dei Voyager hanno inoltre rivelato anche figure radiali scure, in rotazione nell'anello B.

Marte Mercurio Venere Terra Giove Plutone Saturno Nettuno

TORNA SU

Urano
Settimo pianeta in ordine di distanza dal Sole, situato tra le orbite di Saturno e di Nettuno. Dalla Terra appare di sesta magnitudine, appena visibile a occhio nudo. Fu scoperto nel 1781 dall'astronomo William Herschel, che gli diede il nome di Georgium Sidus (Stella di Giorgio) in onore di re Giorgio III d'Inghilterra; il nome Urano, che venne proposto dall'astronomo tedesco Johann Elert Bode, entrò in uso alla fine del XIX secolo.

Urano ha diametro di 52.200 km, distanza media dal Sole di 2,87 miliardi di km e periodo di rivoluzione di 84 anni; compie una rotazione attorno a un asse inclinato di 98° rispetto al piano dell'orbita, con periodo di 17 ore e 15 minuti. La sua atmosfera è composta principalmente di idrogeno ed elio, con tracce di metano. Al telescopio il pianeta appare come un piccolo disco verde-bluastro con un debole bordo verde. Urano ha rispettivamente massa e volume 14,5 e 67 volte maggiori di quelli della Terra, mentre la gravità superficiale è 1,17 volte quella del nostro pianeta. Il campo magnetico, invece, è solo un decimo di quello terrestre, con asse inclinato di 55° rispetto all'asse di rotazione. La densità relativa è circa 1,2.

Nel 1977, sfruttando l'occultazione di una stella da parte del disco del pianeta, l'astronomo americano James L. Elliot notò la presenza di cinque anelli che giacevano sul suo piano equatoriale. Chiamati Alfa, Beta, Gamma, Delta ed Epsilon (a partire dall'anello più interno), essi formano una cintura che si estende fino a 51.300 km dal centro del pianeta; altri quattro anelli vennero scoperti nel gennaio del 1986 dalla sonda spaziale Voyager 2.

Urano ha 15 satelliti (5 scoperti con telescopi dalla Terra, 10 scoperti dal Voyager 2), che orbitano sul piano equatoriale e si muovono nello stesso verso di rivoluzione del pianeta. I due più grandi, Oberon e Titania, vennero scoperti da Herschel nel 1787; Umbriel e Ariel vennero osservati nel 1851 dall'astronomo William Lassell; Miranda, il più interno dei satelliti noti prima del Voyager, fu scoperto nel 1948 dall'astronomo statunitense Gerard Peter Kuiper.

Marte Mercurio Venere Terra Giove Urano Plutone Saturno

TORNA SU

Nettuno
Ottavo pianeta del sistema solare, in ordine di distanza dal Sole. Ha diametro di circa 49.400 km; il volume e la massa sono rispettivamente 72 volte e 17 volte più grandi rispetto a quelli della Terra e la densità media è circa un terzo di quella terrestre. L'albedo è alta: l'84% della luce incidente sulla superficie del pianeta viene riflessa. Nettuno orbita intorno al Sole a una distanza media di circa 4,5 miliardi di km, compiendo una rivoluzione completa in 164,79 anni; il periodo di rotazione è di circa 16 ore. Non è visibile a occhio nudo, ma se osservato con un piccolo telescopio appare come un piccolo disco blu-verde senza caratteristiche definite. La temperatura superficiale, pari a circa -218 °C, è molto simile a quello di Urano, benché quest'ultimo sia molto più vicino al Sole. Ciò lascia supporre che Nettuno abbia una sorgente interna di energia. L'atmosfera è composta principalmente di idrogeno ed elio, ma è presente una piccola percentuale di metano, responsabile del caratteristico colore blu del pianeta.

Sono noti otto satelliti di Nettuno, il più grande e brillante dei quali è Tritone, scoperto nel 1846 (lo stesso anno della scoperta di Nettuno). Con un diametro di 2705 km, Tritone è poco più piccolo della Luna; percorre un'orbita retrograda, diversamente dalla maggior parte dei satelliti principali del sistema solare. Nonostante sia estremamente freddo, è circondato da un'atmosfera di azoto con tracce di metano e mostra la presenza di foschie; sulla sua superficie sono stati osservati dei geyser che emettono materiale di composizione non nota. Nereide, il secondo satellite (scoperto nel 1949), ha diametro di soli 320 km. Altri sei satelliti vennero scoperti dalla sonda Voyager 2 nel 1989. Nettuno ha anche un sistema di cinque anelli. Il suo campo magnetico è inclinato di oltre 50° rispetto all'asse di rotazione.

L'esistenza di Nettuno venne ipotizzata nel 1846 dall'astronomo francese Urbain Le Verrier per spiegare le perturbazioni osservate nell'orbita di Urano. Il pianeta venne scoperto nello stesso anno dall'astronomo tedesco Johann Gottfried Galle, a meno di 1° dalla posizione prevista da Le Verrier.

Marte Mercurio Venere Terra Giove Urano Saturno Nettuno

TORNA SU

Plutone


Nono e ultimo pianeta del sistema solare, in ordine di distanza dal Sole. L'esistenza di Plutone venne ipotizzata dall'astronomo statunitense Percival Lowell per spiegare le piccole perturbazioni osservate nel moto di Urano. Lo staff dell'osservatorio Lowell proseguì la lunga serie di osservazioni iniziate dallo scienziato e nel 1930 il pianeta venne effettivamente scoperto dall'astronomo statunitense Clyde William Tombaugh nei pressi della posizione prevista da Lowell. La massa del nuovo pianeta, tuttavia, apparve insufficiente per spiegare le perturbazioni dell'orbita di Nettuno, e le osservazioni continuarono nel tentativo di identificare un decimo pianeta, che comunque non venne scoperto.

Plutone orbita attorno al Sole a una distanza media di 5,9 miliardi di km, compiendo una rivoluzione completa in 247,7 anni. Percorre una traiettoria molto eccentrica e in alcuni periodi è più vicino al Sole di Nettuno. Non esiste tuttavia rischio di collisione, dal momento che la sua orbita è inclinata di oltre 17,2° rispetto al piano dell'eclittica e non interseca mai il cammino di Nettuno.

Visibile solo per mezzo di grandi telescopi, Plutone appare di colore giallastro. Per molti anni si è saputo relativamente poco di questo pianeta, ma nel 1978 gli astronomi hanno scoperto che esso possiede un satellite relativamente grande, Caronte, situato a una distanza di solo circa 19.000 km.



Le orbite di Plutone e Caronte sono tali che essi sono passati più volte l'uno di fronte all'altro tra il 1985 e il 1990, rendendo possibile una misura precisa delle loro dimensioni. Plutone ha diametro di circa 2284 km e Caronte di 1192 km; si tratta in effetti di un pianeta doppio, più di quanto sia il sistema Terra-Luna. Plutone è circondato da una sottile atmosfera, probabilmente di metano, circa 100.000 volte meno densa rispetto all'atmosfera terrestre. Essa sembra condensarsi e formare delle calotte polari durante i lunghi inverni del pianeta.

Plutone ha densità pressoché doppia rispetto a quella dell'acqua, e ciò fa pensare che esso sia molto più roccioso degli altri pianeti del sistema solare esterno. Potrebbe trattarsi del risultato delle reazioni chimiche avvenute durante la sua formazione e determinate da condizioni di temperatura e pressione particolari. Alcuni astronomi hanno suggerito che Plutone potrebbe essere un satellite di Nettuno, spinto su un'orbita diversa, all'inizio della storia del sistema solare, a causa di una collisione. Caronte sarebbe allora il risultato dell'accumulazione dei frammenti generati da tale collisione.

Marte Mercurio Venere Terra Giove Urano Plutone Saturno Nettuno

ILSISTEMA SOLARE

Il Sistema Solare
STUDI GALASSIE NEBULOSE ALTRI PIANETI

Sistema solare Insieme dei corpi celesti costituito dal Sole e dagli oggetti che orbitano intorno ad esso: nove pianeti con relativi satelliti, migliaia di asteroidi e un numero imprecisato di comete. Lo spazio in cui orbitano questi corpi è pervaso da materia interplanetaria, costituita prevalentemente da polveri finissime e gas estremamente rarefatti. Fino al 1992, il sistema solare era l'unico sistema planetario di cui si conoscesse l'esistenza; in quell'anno, poi, fu individuato il primo pianeta orbitante intorno a una stella diversa dal Sole, la pulsar PSR 1257 +12, nella costellazione della Vergine. Da allora, sono stati individuati diversi altri pianeti extrasolari, e un probabile sistema planetario in via di formazione intorno alla stella Beta Pictoris.





Sono nove i pianeti conosciuti del sistema solare. In ordine di distanza dal Sole si succedono dapprima i pianeti cosiddetti terrestri, in quanto costituiti da materiali rocciosi: Mercurio, che è piccolo e caldo; Venere, che percorre la sua orbita di rivoluzione a una velocità estremamente bassa; dopo la Terra, Marte, che appare rosso, con due calotte polari di ghiaccio molto ben distinguibili. Seguono quindi i pianeti cosiddetti giovani, in quanto più simili a Giove per composizione: Giove, il più grande del sistema solare, con un volume pari a 1400 volte quello della Terra; Saturno, contornato da un sistema di anelli e da più di 20 satelliti; Urano e Nettuno, che appaiono di colore verde-azzurro per il metano presente nella loro atmosfera; infine Plutone, di cui si sa molto poco, compie la sua orbita di rivoluzione a una distanza media di 5,9 miliardi di km, in 247,7 anni.

I nove pianeti del sistema solare, in orbita ellittica intorno al Sole, vengono divisi in due gruppi: quello dei pianeti interni (Mercurio, Venere, Terra e Marte) e quello dei pianeti esterni (Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone). I primi sono piccoli e composti essenzialmente di rocce e metalli, i secondi hanno dimensioni assai maggiori e sono composti principalmente da gas.

La superficie di Mercurio presenta numerosi crateri generati dall'impatto di meteoriti. Il pianeta, circondato da un'atmosfera molto sottile, ha un'alta densità dovuta probabilmente alla grande massa ferrosa che ne costituisce il nucleo.

Venere è avvolto da un'atmosfera di anidride carbonica 90 volte più densa di quella terrestre; ciò provoca un intenso effetto serra e un conseguente surriscaldamento della superficie, che supera i 450 °C di temperatura.

La Terra è l'unico pianeta su cui, a quanto si sa, siano presenti acqua allo stato liquido e forme di vita. Esistono indizi della presenza di acqua in epoche passate anche su Marte; questo pianeta è oggi circondato da un'atmosfera molto tenue, che rende la superficie arida e fredda, con grandi calotte polari di ghiaccio secco (anidride carbonica allo stato solido).

Giove è il pianeta più grande del sistema solare; è avvolto da caratteristiche nubi dai colori pastello e da un'atmosfera di idrogeno ed elio; l'immensa magnetosfera, gli anelli e i satelliti ne fanno una sorta di sistema planetario a sé stante.

L'altro grande pianeta del sistema, Saturno, è circondato, come Giove, da un sistema di anelli e satelliti. Urano e Nettuno contengono minori quantità di idrogeno rispetto ai due pianeti giganti; Urano, in particolare, ruota intorno a un asse che giace quasi sul piano dell'orbita. Plutone è l'ultimo tra i pianeti scoperti sino a oggi; ha un diametro relativamente piccolo, un'orbita ellittica molto eccentrica, e la sua distanza dal Sole è tale (circa 6 miliardi di km) da farne il pianeta più freddo del sistema solare.
http://www.giorgiotave.it/sistema_solare/universo.php

LE NEBULOSE

Una Nebulosa è una massa di gas e di particelle di polvere situata nello spazio interstellare. Prima dell'invenzione del telescopio, il termine nebula (in latino "nube") era utilizzato per tutti gli oggetti celesti di aspetto diffuso e includeva quindi ammassi stellari e galassie.

Esistono nebulose sia nella Via Lattea sia nelle altre galassie. Sono divise in nebulose planetarie, resti di supernova e nebulose diffuse e ciascuna di queste classi comprende nebulose a riflessione, a emissione e oscure. All'interno di alcune dense nubi interstellari si trovano inoltre nebulose molto brillanti, note come oggetti di Herbig-Haro, che sono probabilmente il prodotto di getti di gas emessi da stelle giovani durante il processo di formazione.

Le nebulose planetarie, cosiddette perché osservate al telescopio ricordano vagamente la forma dei pianeti, sono in realtà i "gusci" di materia che una stella vecchia di media massa rilascia durante la fase evolutiva di gigante rossa, prima di trasformarsi in nana bianca. L'oggetto ad anello nella costellazione della Lira è un tipico esempio di nebulosa planetaria; ha periodo di rotazione di 132.900 anni e massa pari a circa 14 volte quella della Terra. Nella Via Lattea sono state scoperte alcune migliaia di nebulose planetarie. Ancora più spettacolari, ma meno frequenti, sono le nebulose che si producono dopo un'esplosione di supernova; la più famosa di queste è forse quella del Granchio nella costellazione del Toro, che si sta indebolendo con un tasso annuale dello 0,4% circa. Le nebulose di questo tipo sono intense sorgenti di onde radio, come residuo dell'esplosione che le ha generate.

Le nebulose diffuse sono molto grandi, con dimensioni di vari anni luce, senza confini definiti e con una forma che ricorda quella di una nuvola. Possono essere luminose o oscure; tra le prime vi è uno degli oggetti più famosi del cielo, la grande nebulosa di Orione. Sono note migliaia di nebulose brillanti, attentamente studiate per mezzo di tecniche di analisi spettrale. Le ricerche mostrano che esse possono brillare secondo due meccanismi: o perché riflettono la luce delle stelle in esse contenute (nelle nebulose cosiddette a riflessione), oppure, nelle nebulose a emissione, perché emettono radiazione proveniente dal gas e dalle polveri ionizzati presenti all'interno della nebulosa stessa.

Le nebulose oscure sono completamente nere o poco luminose e nascondono del tutto le regioni di cielo retrostanti; sono troppo distanti da qualunque stella per riflettere o emettere luce in grande quantità. Una delle più famose nebulose oscure è la Testa di Cavallo nella costellazione di Orione, così chiamata perché la materia oscura sembra rappresentare il capo di un cavallo, che si staglia davanti a una nube luminosa. La lunga striscia scura che si osserva sulle lastre fotografiche della Via Lattea è una successione di nebulose oscure. Si pensa che sia le nebulose brillanti sia quelle oscure siano luoghi in cui, per condensazone del gas, si formano nuove stelle.
http://www.giorgiotave.it/sistema_solare/nebulose.php

LE GALASSIE

Le Galassie



Una Galassia è un agglomerato di centinaia di miliardi di stelle, gas e polveri, legati tra loro da forze di natura gravitazionale e orbitanti intorno a un centro comune. Tutti gli astri visibili a occhio nudo dalla superficie terrestre, come il Sole, appartengono alla nostra galassia: la Via Lattea.



La maggior parte delle galassie appare, a causa della distanza dalla Terra, come una nube debolmente luminosa e solo nelle fotografie degli ammassi più vicini è possibile distinguere le singole stelle. Le osservazioni al telescopio permettono di determinare, seppure in modo approssimativo, la forma delle galassie e quindi di organizzare su questa base una prima classificazione.

Le galassie ellittiche hanno una generica forma globulare, con un nucleo brillante; esse contengono una popolazione di stelle vecchie, hanno un piccolo quantitativo di gas e polveri visibili e un numero relativamente basso di stelle giovani.

Le galassie a spirale invece sono formate da un disco appiattito che contiene poche stelle vecchie, una vasta popolazione di stelle giovani, abbondanti quantità di gas e polveri, e grandi nubi molecolari che sono luogo di formazione stellare. Solitamente le regioni che contengono le stelle giovani si avvolgono attorno alla galassia, mentre un alone di stelle vecchie e deboli circonda il disco; spesso inoltre esiste anche un nucleo più piccolo, che emette due getti di materia ad alta energia in direzioni opposte.

Alcune galassie a disco, che non mostrano una forma a spirale, sono classificate come irregolari; anch'esse contengono una grande quantità di gas, polveri e stelle giovani. Sono spesso localizzate vicino a galassie più grandi e il loro aspetto è probabilmente il risultato dell'interazione gravitazionale con galassie di grosse dimensioni. Alcune galassie peculiari si trovano in gruppi ravvicinati di due o tre agglomerati e le loro reciproche interazioni mareali hanno provocato la deformazione dei bracci a spirale, producendo dischi distorti e lunghi getti di materia.

Le quasar sono oggetti di aspetto stellare o quasi stellare, caratterizzati da una grandissima distanza dalla Terra. Oggi la maggior parte degli astronomi ritiene che questi corpi celesti siano galassie attive i cui nuclei contengono enormi buchi neri.



http://www.giorgiotave.it/sistema_solare/galassie.php

LA MATERIA OSCURA

di: Alessio Mannucci

Nel 1933, l'astronomo Fritz Zwicky, studiando il moto di ammassi di galassie lontani e di grande massa - l'ammasso della Chioma e quello della Vergine - stimò la massa di ogni galassia basandosi sulla sua luminosità, e sommò tutte le masse per ottenere quella totale. Ottenne poi una seconda stima della massa totale, basata sulla misura della dispersione delle velocità individuali delle galassie nell'ammasso. Con sua grande sorpresa, questa seconda stima era 400 volte più grande della stima basata sulla luce delle galassie. Fu solo negli anni Settanta, che gli scienziati iniziarono ad esplorare questa discrepanza in modo sistematico. Fu in quel periodo che l'esistenza della materia oscura iniziò ad essere presa sul serio.




Il 21 agosto 2006, la NASA rilascia un comunicato stampa secondo cui i satelliti Nasa a raggi X Chandra avrebbero trovato prove dirette dell'esistenza della materia oscura nello scontro tra due ammassi di galassie. Doug Clowe, un astronomo dell'Università dell'Arizona, dichiara: «È la prima diretta testimonianza della materia oscura» (insieme ad alcuni suoi colleghi, pubblicherà i risultati sull'Astrophysical Journal).



Utilizzando un insieme di telescopi a terra, oltre a Chandra e al Telescopio Spaziale Hubble, gli studiosi hanno attentamente seguito l'ammasso 1E0657-56 (noto anche come «ammasso proiettile»), prodotto della collisione avvenuta circa 100 milioni di anni fa tra due ammassi di galassie (l'evento più energetico avvenuto nell'universo dopo il Big Bang), rilevando come lo scontro abbia provocato la separazione della materia visibile da quella «oscura». Secondo Sean Carroll, cosmologo dell'Università di Chicago, i dati di Clowe e il suo gruppo dimostrano, «oltre ogni ragionevole dubbio», l'esistenza della materia oscura. Esistenza però messa in dubbio da altri scienziati, secondo i quali è la forza dovuta alla gravità a dover essere rivista, in modo particolare negli spazi intergalattici. «Non è detto che anche la legge della gravità debba essere riconsiderata», ha detto Carroll.



All'inizio del 2007, ricercatori del Dark Cosmology Centre della University of Copenhagen, al Niels Bohr Institute, parte della collaborazione internazionale ESSENCE, osservando la luce di distanti supernove, tracciano la storia dell'espansione dell'universo con un'accuratezza senza precedenti. Il Dr. Jesper Sollerman e il Dr. Tamara Davis, a capo del team, dichiarano che, a dispetto dei più moderni e sofisticati modelli cosmologici, il modello migliore per spiegare l'accelerazione dell'espansione rimane quello proposto dalla costante cosmologica di Einstein nel 1917(seppure all'epoca Einstein credeva che l'universo fosse statico, non in espansione).

Lo scopo primario di ESSENCE - un team composto da 38 ricercatori di tutto il mondo, con a disposizione i telescopi più grandi del mondo, il VLT (Very Large Telescope) dell'European Southern Observatory, il Magellano, il Keck e il Gemini - è di misurare l'energia oscura, che causa l'accelerazione dell'espansione dell'universo. La costante cosmologica è vista come un fenomeno meccanico-quantistico chiamato «vacuum energy», ovvero l'energia dello spazio vuoto. I nuovi dati mostrano che la storia dell'espansione dell'universo può essere spiegata semplicemente incorporando la costante nella normale teoria della gravità.



(Credit: NASA, ESA and R. Massey, California Institute of Technology)

Sempre all'inizio del 2007, gli astronomi del COSMOS (Cosmic Evolution Survey) - un team internazionale di astronomi coordinati da Richard Massey, del California Institute of Technology (Caltech, USA) - analizzando il colore, la forma e la luminosità di oltre 500 mila galassie, realizzano la prima mappa tridimensionale che rivela la distribuzione della materia oscura e la sua interazione con la materia ordinaria nel processo di formazione delle galassie, con un dettaglio che non ha precedenti. La mappa è stata realizzata a partire dalle osservazioni dell'Hubble Space Telescope utilizzando il lensing gravitazionale (lente gravitazionale) per determinare la distribuzione della massa attraversata dalla luce visibile (la materia oscura, la cui natura non è ancora chiaramente determinata, non emette né riflette la luce, ndr).

I risultati, pubblicati su Nature e presentati durante il 209imo meeting della American Astronomical Society (AAS) svoltosi a Seattle (Washington) dal 5 al 10 gennaio, confermano quanto in precedenza ipotizzato, e cioè che la materia oscura costituisce quell'armatura che ha permesso alla materia ordinaria di raggrupparsi, per poi, attraverso un processo di attrazione, formare le galassie. Grazie al lensing gravitazionale, gli studiosi sono riusciti a mappare la presenza della materia oscura e a determinare come questa sia sei volte più abbondante della materia ordinaria. “La materia oscura avvolge completamente le stelle e le galassie”, ha spiegato Richard Massey, “fra un nugolo di materia oscura e l'altro si gettano dei ponti, sempre di materia oscura, come dei filamenti, che fanno assumere al tutto l'aspetto di una grande rete”. La materia visibile costituisce circa un sesto dell'intero universo, tutto il resto rimane non visibile.



(Credit: NASA, ESA and R. Massey, California Institute of Technology)

Nick Scoville, sempre del gruppo Caltech, ha condotto l'indagine attraverso l'uso del Telescopio Hubble e della sua sofisticatissima Advanced Camera for Surveys (ACS). Hubble ha fornito i dati provenienti da circa mille ore di osservazione, ha tracciato una zona del cielo equivalente alla larghezza di quattro lune piene, dedicando il 10% del suo tempo operativo degli ultimi due anni. Per completare l'indagine, sono stati uniti, a questi, i dati provenienti da altri quattro osservatori astronomici del mondo. “È stato come ricostruire un'intera città basandosi solo su una veduta aerea notturna delle strade illuminate”, hanno dichiarato gli astronomi. Il telescopio Subaru (Mauna Kea, Hawai) ha fornito immagini tratte da 30 notti di osservazione, mentre il Very Large Telescope dell' European Southern Observatory e il Giant Magellan in Cile hanno misurato lo spettro della luce dalle galassie viste da Hubble, permettendo di calcolare le distanze tra esse. Il telescopio a raggi X dell'ESA, XMM-Newton, ha invece contribuito a delineare il gas all'interno delle galassie e la distribuzione della materia ordinaria. La combinazione di tutti questi dati ha permesso agli astronomi di calcolare la distribuzione della materia oscura nella zona di cielo esaminato in base alla deviazione della luce esistente (che non poteva essere attribuita solamente alla massa della materia ordinaria). Sebbene su un'area limitata, questa mappa costituisce il primo risultato non basato su semplici simulazioni, e, dunque, in maniera molto verosimile, la reale distribuzione della materia oscura.



(Credit: NASA, ESA and R. Massey, California Institute of Technology)

“Quella che siamo riusciti a studiare è una piccola parte del cielo, qualcosa come due gradi su 40 mila, ma si tratta delle immagini più chiare che siano mai state ottenute”, ha commentato Eric Linder, del Lawrence Berkeley National Laboratory. Le parti più distanti di questo programma 3D rappresentano le ere più antiche nella storia dell'universo e ciò ha permesso alla squadra di seguire i cambiamenti nella distribuzione della materia oscura su un periodo che varia da circa 6.5 a 3.5 miliardi di anni fa. I risultati di COSMOS sono un passo avanti molto importante nella comprensione dell'universo, ma portano anche nuovi ed affascinanti interrogativi. I ricercatori sono rimasti perplessi di fronte ad una certa concentrazione di materia oscura che non sempre si sovrappone alla materia visibile: alcune zone sembrano mostrare delle discrepanze fra la distribuzione della materia oscura e quella ordinaria, mentre altre zone mostrano concentrazioni della materia ordinaria senza fette di materia oscura corrispondenti. Prima di ripensare i modelli cosmologici, gli scienziati stanno cercando di capire se queste anomalie possano essere dovute a interferenze nella raccolta dei dati. “È peggio di un puzzle”, dice Scoville.

A svelare i misteri della materia oscura, e anche della “particella di Dio”, potrebbe contribuire l'International Linear Collider (ILC),un futuro acceleratore di particelle lineare, un progetto internazionale da 6.7 miliardi di dollari che dovrebbe essere realizzato dopo il 2010. Rispetto al Large Hadron Collider (LHC) presso il CERN di Ginevra, la cui entrata in funzione inizialmente prevista per la fine del 2007 è stata spostata alla primavera del 2008 per un incidente durante la costruzione avvenuto il 6 aprile 2007, l'ILC fornirà un'energia relativamente ridotta, ma le collisioni dell'ILC saranno meno affette da disturbi e quindi permetteranno di effettuare misurazioni di precisione delle particelle individuate dall'LHC.


Data articolo: ottobre 2007

http://www.ecplanet.com/canale/ricerca-8/Ricerca-50/MATERIA+OSCURA+-/0/34225/it/ecplanet.rxdf

ESPANSIONE DELL'UNIVERSO CON ACCELERAZIONE COSTANTE

The expanding universe

di: Alessio Mannucci

Ma perché l'universo si espande ad un tasso in costante accelerazione ?

Una originale soluzione a questo puzzle cosmologico è stata proposta da quattro fisici teorici: Edward W. Kolb, del Fermi National Accelerator Laboratory dell’ U.S. Department of Energy, Chicago (USA), Sabino Matarrese, della Università di Padova, Alessio Notari, della University of Montreal (Canada), e Antonio Riotto, dell'INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) di Padova.

Prima però occorre fare un passo indietro. Albert Einstein, inizialmente pensava che l'universo fosse statico, cioè che non si espandeva né si contraeva. Quando però la sua teoria della Relatività Generale mostrò chiaramente che l'universo doveva per forza espandersi o contrarsi, Einstein introdusse un nuovo elemento: una “costante cosmologica” che serviva a rappresentare una densa massa di spazio vuoto che guida l'espansione dell'universo ad un tasso in costante accelerazione, e che i fisici oggi chiamano materia-energia oscura. Quando, nel 1929, Edwin Hubble dimostrò con le sue osservazioni che l'universo stava in effetti espandendosi, Einstein ripudiò la sua costante cosmologica definendola “il più grande blunder della sua vita”.

Nel 1998, osservazioni di lontane supernovae hanno dimostrato e confermato l'espansione in accelerazione dell'universo. Per spiegarla, finora, si è postulata teoricamente l'esistenza dell'energia oscura - circa il 70 percento della totale massa dell'universo – e della materia oscura - 25 percento - mentre solo il 5 percento sarebbe composto di materia ordinaria, ovvero quarks, protoni, neutroni ed elettroni che compongono tutto l'esistente, comprese le “unità carbonio” (gli umani).

“L'ipotesi dell'energia oscura è estremamente affascinante”, dice Antonio Riotto, “ma rappresenta anche un problema, dato che nessun modello teoretico riesce a spiegare la presenza di questa misteriosa forza. Se veramente l'ammontare di questa energia fosse quello che dicono le teorie, l'universo si sarebbe espanso con una tale velocità che avrebbe precluso l'esistenza di tutto ciò che conosciamo”. L'ammontare requisito di energia oscura è cioè difficilmente conciliabile con le leggi conosciute della fisica, tanto che sono state avanzate le più esotiche spiegazioni, incluse nuove forze, nuove dimensioni dello spazio-tempo, nuove particelle elementari ultraleggere.



Il nuovo studio propone invece che l'attuale tasso di accelerazione dell'espansione sia una conseguenza del modello cosmologico standard per l'universo primigenio. “La nostra soluzione al paradosso posto dall'universo in espansione accelerata”, continua Riotto, “risiede nella cosiddetta teoria inflazionaria che risale al 1981 (proposta dal fisico statunitense Alan Guth, ndr)”. Secondo questa teoria, nel tempo di una minuscola frazione di secondo, subito dopo il Big Bang, l'universo avrebbe conosciuto una espansione incredibilmente rapida, superiore alla velocità della luce, producendo fluttuazioni caotiche che avrebbero generato oscillazioni nello spazio-tempo, così come predetto dalla teoria della Relatività Generale di Einstein. Queste oscillazioni si sarebbero poi ampliate man mano che l'universo si espandeva, e oggi si estendono oltre i nostri orizzonti cosmici, verso regioni più vaste dell’universo osservabile (l'universo “osservabile” è limitato ad un raggio di circa 15 miliardi di anni di luce perché è la distanza massima che può coprire la luce viaggiando fino a noi dal tempo del Big Bang, ndr).

La teoria inflazionaria spiegherebbe perché l'universo appaia così omogeneo. Recentemente, gli esperimenti Boomerang e WMAP, con cui si misurano le sottili fluttuazioni della radiazione cosmica di fondo, hanno ulteriormente confermato la teoria inflazionaria. Gli autori dello studio sostengono che l'espansione accelerata dell'universo si deve proprio all'evoluzione di questi ripples cosmici: “In questa prospettiva non c'è più bisogno di ricorrere all’energia oscura”, conclude Riotto.

Edward Kolb, dei Fermi Labs, dice che “in base ai dati che ci forniranno i prossimi esperimenti saremo in grado di valutare concretamente la nostra teoria e finalmente sapremo se Einstein era nel giusto quando introdusse la costante cosmologica o se era nel giusto quando più tardi la rinnegò”.
http://www.ecplanet.com/canale/ricerca-8/Ricerca-50/the+expanding+universe-/0/17775/it/ecplanet.rxdf

L'UNIVERSO SI ESPANDE

The expanding universe 2

redazione ECplanet

Grazie alle osservazioni del Very Large Telescope dell'ESA è stato possibile misurare la distribuzione e i movimenti di migliaia di galassie dell'universo distante.

Dieci anni fa, i cosmologi scoprirono con grande sorpresa che l'universo si stava espandendo a velocità maggiore che in passato. “Ciò implica due seguenti possibilità”, dice Enzo Branchini, dell'Università di Roma III, coautore dell'articolo apparso su Nature, “o l'universo è permeato da una misteriosa energia oscura che produce una forza repulsiva contraria alla forza gravitazionale, oppure l'attuale teoria della gravitazione deve essere riveduta, e contemplare anche la possibile esistenza di dimensioni extra”.

Il gruppo internazionale formato da 51 scienziati di 24 istituti che ha condotto lo studio ha elaborato una tecnica di misurazione basata sul moto apparente delle galassie distanti, un fenomeno provocato dall'espansione complessiva dell'universo, che allontana le galassie le une dalle altre, e dall'attrazione gravitazionale della materia presente nelle galassie, che tende ad avvicinarle. Analizzando la radiazione di migliaia di galassie molto distanti da noi, la cui luce è stata emessa circa 7 miliardi di anni fa, gli scienziati hanno viaggiato nel tempo, osservando l'universo in un un'epoca che si colloca a circa la metà dell'età di quello attuale.




“Misurando le velocità apparenti delle galassie negli ultimi 30 anni”, dice Olivier Le Fèvre, del Laboratoire d'Astrophysique de Marseille, OAMP-CNRS, che ha partecipato alla ricerca, “gli astronomi sono stati in grado di ricostruire una mappa tridimensionale della distribuzione di galassie su grandi volumi che ha rivelato le strutture a larga scala dell'universo come ammassi e super-ammassi di galassie. Ma le velocità misurate contengono anche l'informazione sui moti locali delle galassie e ciò introduce piccole ma significative distorsioni nelle mappe dell'universo”.

Sono così stati raccolti più di 13.000 spettri di sorgenti che occupano un volume di circa 25 milioni di anni luce cubici. I risultati sono poi stati confrontati con analoghe misure relative all'universo locale relative al monitoraggio 2dFGRS, condotto con il telescopio situato nell'Australia orientale, che dà un'idea della distorsione attuale.

All'interno di questa incertezza sperimentale, resta da stabilire quale sia la più semplice forma dell'energia oscura, quest forza inafferrabile che occupa il 75% dell'universo, che Albert Einstein chamava “costante cosmologica”. “Ora”, dice Branchini, “saranno necessari altri studi ed altri test indipendenti per dare ulteriori conferme alle conclusioni degli scienziati”. Il mistero continua.


Data articolo: febbraio 2008

http://www.ecplanet.com/canale/astronomia-9/universo-120/1/0/36895/it/ecplanet.rxdf

martedì 5 febbraio 2008

I BUCHI NERI

I BUCHI NERI



Sebbene gli scienziati non siano riusciti ad individuarne con certezza nemmeno uno i buchi neri dovrebbero essere molto numerosi già all’interno della nostra galassia e ve ne dovrebbero essere anche di vario tipo (semplici buchi neri, superbuchi neri, minibuchi neri e perfino buchi bianchi).

Nell’inverno 1915-16 un paio di mesi dopo la pubblicazione della teoria della relatività generale da parte di Einstein (una teoria che tratta la forza di gravità in modo nuovo e più preciso rispetto a quella esposta in precedenza da Newton) l’astrofisico tedesco Karl Schwarzschild, nel suo letto di morte, dove giaceva a causa di una malattia contratta sul fronte russo della prima guerra mondiale, calcolò quale avrebbe dovuto essere la massa di un corpo celeste nell’ipotesi di un intenso campo gravitazionale tale da trattenere su di sé qualsiasi cosa, compresa la luce. La descrizione matematica che fece lo scienziato tedesco di questo ipotetico corpo celeste venne considerata, a quel tempo, un semplice esercizio accademico di ciò che in seguito prese il nome di “buco nero”. Esso fu anche l’ultimo suo lavoro: morì poco dopo a soli 43 anni di età.

Schwarzschild, utilizzando le equazioni previste dalla teoria della relatività, individuò il raggio (R) che avrebbe dovuto avere un corpo celeste dotato di massa tale da non lasciare uscire nulla dal suo interno e dimostrò che questa dimensione limite era determinata da una formula la quale moltiplica la massa (M) dell’oggetto per il doppio della costante di gravitazione (G) diviso per la velocità della luce (c) al quadrato: R = 2GM/c². Ora, poiché il doppio della costante di gravitazione universale diviso per il quadrato della velocità della luce è un numero molto, ma molto piccolo, è chiaro che affinché si ottenesse un valore apprezzabile del raggio di Schwarzschild (come è stato in seguito chiamata questa dimensione), doveva essere molto, ma molto grande la massa dell’oggetto preso in considerazione. Il raggio di un buco nero delimita a sua volta una superficie che separa due regioni non comunicanti fra loro ed è chiamata “orizzonte degli eventi” perché nessun segnale può allontanarsi da quella stella per comunicare un evento qualsiasi al mondo esterno.

In verità l’idea che potessero esistere corpi celesti dotati di una massa così grande da catturare la luce era già venuta in precedenza verso la metà del 1700 all’astronomo e provetto navigatore inglese Thomas Wright di Durham, il quale aveva immaginato la Via Lattea (ovvero la nostra galassia) come un grande disco di stelle in rotazione intorno ad una massa centrale molto pesante e invisibile. Alcuni decenni più tardi il prete inglese John Mitchell e il matematico francese Pierre Simon de Laplace, indipendentemente l’uno dall’altro, avevano calcolato che stelle 500 volte più grandi del Sole avrebbero dovuto esercitare una forza di gravità tale da attrarre su di esse gli oggetti vicini e nello stesso tempo impedire alla luce, che allora era considerata un insieme di palline colorate, di uscire.

Il modello di Mitchell e Laplace cadde in discredito quando la teoria ondulatoria della luce soppiantò quella corpuscolare proposta da Newton. Con l’introduzione della nuova teoria pareva infatti illogico pensare che se la luce era qualcosa di immateriale potesse essere attratta da un corpo pesante. Si ritornò invece all’idea originale dopo che Einstein formulò la teoria della relatività generale all’interno della quale la gravità veniva ridotta a geometria e quindi non era più una forza. La teoria di Einstein prevede che corpi molto pesanti distorcano lo spazio nelle loro vicinanze: la prova di un affossamento dello spazio in vicinanza del Sole si ebbe in seguito ad una misura eseguita dall’astronomo britannico Arthur Eddington durante un’eclissi totale di Sole nel 1919. Egli osservò che il raggio di luce che proveniva da una stella lontana quando passava in vicinanza del Sole deviava dalla sua traiettoria rettilinea e percorreva l’avvallamento che l’astro aveva creato nello spazio circostante dando l’impressione di essere attratto da esso. Se il corpo in esame fosse molto pesante come quello di un buco nero la deformazione dello spazio nelle sue vicinanze sarebbe tale per cui un raggio di luce che tentasse di uscire da quell’astro si ritorcerebbe su sé stesso e tornerebbe indietro.

La gravità non deforma solo lo spazio ma anche il tempo che si modifica con lo stato di moto dell’osservatore e con la sua posizione nel punto dell’Universo in cui si trova. Le teorie relativistiche di Einstein suggeriscono infatti che il tempo scorre più lentamente se si viaggia a velocità molto elevate e se si sosta su di un corpo molto pesante: su un buco nero il tempo dovrebbe fermarsi del tutto. Sul nostro pianeta, per fare un esempio, il tempo scorre più lentamente a fondo valle che in alta montagna: la differenza ovviamente è minima ma può essere verificata con l’utilizzo degli orologi nucleari, estremamente precisi e sensibili. Gli effetti di un tempo che si deforma a seconda di come ci stiamo muovendo e di dove ci troviamo non vengono mai sperimentati nella vita di tutti i giorni perché non capita mai di viaggiare ad una velocità prossima a quella della luce (un aereo viaggia solo ad un milionesimo di quella velocità) e sul nostro pianeta la gravità è mille miliardi di volte minore di quella che si registra su una stella di neutroni, che è un oggetto celeste sensibilmente meno pesante di un buco nero. Resta il fatto che in pianura, seppure di poco, la gente invecchia più lentamente che in montagna.

Negli stessi anni in cui fu compiuta l’osservazione che confermava la validità di una delle caratteristiche della teoria della relatività generale, Eddington aveva calcolato che stelle con una massa maggiore di 60 volte quella del Sole (quindi di gran lunga inferiore rispetto a come le avevano immaginate Mitchell e Laplace) non potevano esistere perché sarebbero collassate producendo al loro interno temperature tali da farle esplodere. Eddington era considerato un fisico molto competente, ed uno dei pochi esperti della teoria relativistica di Einstein, ma per nulla modesto: si racconta che quando un giornalista gli si rivolse affermando di avere sentito dire che esistevano solo tre persone in grado di capire la relatività generale egli rimase per un attimo soprappensiero poi sbottò: “Sto pensando chi possa essere la terza!”.



1. LE CARATTERISTICHE DEI BUCHI NERI

Per comprendere meglio il buco nero dobbiamo chiarire il concetto di velocità di fuga. Immaginiamo allora di scagliare un sasso verso l’alto: mentre questo sale la forza di gravitazione lo attrae verso il basso facendogli diminuire la velocità fino a fermarlo e quindi costringerlo ad invertire la corsa. Se il sasso venisse scagliato con maggior forza salirebbe più in alto ma poi ancora una volta invertirebbe il cammino e cadrebbe a terra. Il campo gravitazionale della Terra, come abbiamo accennato, non ha lo stesso valore in ogni luogo e diminuisce vistosamente con l’altezza: esso infatti è proporzionale al quadrato della sua distanza dal centro del pianeta. Un oggetto in superficie si trova a circa 6.370 kilometri dal centro della Terra e se venisse posto a 6.370 kilometri di altezza (cioè a distanza doppia dal centro) il valore del campo si ridurrebbe ad un quarto. Analogamente, se l’oggetto si portasse ad una distanza tripla l’attrazione si ridurrebbe ad un nono; se si quadruplicasse la distanza dal centro della Terra, l’attrazione sarebbe un sedicesimo di quella in superficie e così via. Da un punto di vista aritmetico la regola è molto semplice, basta calcolare il quadrato della distanza e poi l’inverso del numero ottenuto: se la distanza aumentasse di cinque volte la forza diventerebbe un venticinquesimo (che è l’inverso di venticinque). Se si salisse molto in alto il campo gravitazionale finirebbe per ridursi a zero.

Dai dati esposti sopra si deduce che se un oggetto venisse scagliato verso l’alto con una forza notevole acquisterebbe una velocità tale da sfuggire definitivamente al campo gravitazionale terrestre e non tornerebbe più indietro. La velocità minima perché un oggetto lanciato dalla superficie della Terra verso l’alto possa sfuggire al suo campo gravitazionale si chiama velocità di fuga. Questa velocità è di 11,2 km/s ma sugli altri corpi celesti è diversa e dipende dalla loro massa: sulla Luna, ad esempio, la velocità di fuga è di 2,4 km/s e sul Sole è di 618,2 km/s; in definitiva essa dipende quindi sia dalla massa del corpo sia dalla distanza dal suo centro.

Quando un corpo celeste si contrae il campo gravitazionale sulla sua superficie diventa più intenso a mano a mano che diminuisce il volume mentre la massa rimane immutata. Consideriamo per esempio la Terra e immaginiamo di comprimerla fino a ridurla ad un quarto delle sue dimensioni originali: la sua superficie si troverebbe ora quattro volte più vicina al centro e quindi si dovrebbe quadruplicare l’energia cinetica necessaria per fare allontanare da essa un oggetto. La velocità di fuga pertanto non sarebbe più di 11,2 km/s ma il doppio, ossia 22,4 km/s. Se ora, lasciando immutata la massa il pianeta venisse ulteriormente compresso fino a ridurre il raggio a un kilometro e mezzo, la velocità di fuga sarebbe di 730 km/s. Se infine il raggio venisse ridotto a meno di un centimetro la velocità di fuga supererebbe quella della luce e la nostra Terra scomparirebbe definitivamente lasciando dietro di sé un piccolo forellino nello spazio. Se quindi potessimo concentrare tutta la materia del nostro pianeta nel volume occupato da un chicco d’uva esso diventerebbe un buco nero.

Nel 1939 J. Robert Oppenheimer (1904-1967), il fisico americano che diresse l’équipe che realizzò la prima bomba atomica, mentre studiava le caratteristiche fisiche delle stelle di neutroni, considerò le possibili conseguenze dell’aumento di massa di questo particolare tipo di corpi celesti. I calcoli lo portarono a concludere che quando la massa di una stella supera tre volte quella del Sole il campo gravitazionale si fa talmente intenso che anche i neutroni a contatto fra loro non riescono più a sopportare la compressione e letteralmente si sbriciolano. La stella allora continua a contrarsi e non esiste più alcuna forza in grado di arrestarne il collasso. In seguito si scoprì che esistono effettivamente stelle delle dimensioni previste da Oppenheimer e quindi si prese in seria considerazione il fatto che nell’Universo potesse avvenire la scomparsa catastrofica di un astro.

Il termine “buco nero” fu proposto dal fisico americano John Archibald Wheeler (1911- ) ed ebbe subito grande successo soprattutto presso il grosso pubblico. Il nome traeva origine dall’osservazione che ogni cosa che cadeva nell’oggetto contratto era come se cadesse in un buco infinitamente profondo; nemmeno la luce poteva uscire da quel “buco” e quindi esso doveva apparire “nero”. In verità non tutti accettarono la definizione che di questi straordinari oggetti celesti diede Wheeler, così ad esempio i Francesi avvertivano nel termine trou noir una connotazione oscena e ritennero di sostituirla con astre occlus (stella occlusa): una definizione questa che per fortuna non ebbe seguito.



2. LA FORMAZIONE DEI BUCHI NERI

In teoria dovrebbero poter esistere buchi neri di qualsiasi grandezza: pesanti meno di un grammo, un miliardo di tonnellate o un miliardo di masse solari; basta che la massa sia concentrata in un volume sufficientemente piccolo. Ad esempio, un buco nero della massa di una montagna sarebbe grande quanto il nucleo di un atomo (10-13 cm) mentre un buco nero grande quanto una montagna avrebbe la massa del Sole.

Si potrebbe anche immaginare di trasformare in buco nero la massa più piccola che si conosca, quella dell’elettrone (10-27g), ma lo impediscono motivi teorici legati alle cosiddette unità naturali (o standard) di Planck che fissano le grandezze minime compatibili con le leggi fisiche. Esse sono le seguenti: massa=2,9×10-5 grammi; distanza=1,61×10-33 centimetri; tempo=5,36×10-44 secondi. Quindi la massa minima capace di trasformarsi in buco nero non potrebbe essere inferiore a circa 10- 5 g e dovrebbe trovare sistemazione in una sferetta del diametro di circa 10-33 cm. La densità di un simile mini-minibuco nero sarebbe pertanto di 1094 g/cm3 (equivalente all’intero Universo ridotto alle dimensioni di un atomo). I fisici ritengono che simili configurazioni ultramicroscopiche si sarebbero potute formare alcuni istanti prima del big bang ma si sarebbero dissolte immediatamente dopo e lo avrebbero fatto entro il tempo di Planck.

La densità incredibile del mini-minibuco nero riportata sopra non deve trarci in inganno. In verità non tutti i buchi neri sono ugualmente densi: più pesante è un oggetto e meno deve contrarsi per diventare un buco nero. Per fornire un dato opposto a quello del mini-minibuco nero si può portare ad esempio quello dell’intera nostra galassia che ha una massa pari ad oltre cento miliardi di stelle la quale se venisse contratta fino a formare un buco nero sarebbe di dimensioni enormi e avrebbe una densità pari a solo un millesimo dell’atmosfera che avvolge il nostro pianeta. Lo stesso Universo potrebbe essere ritenuto un immenso buco nero: fatti i conti la massa dei mille miliardi di galassie in esso contenute darebbe un raggio di Schwarzschild di 10 miliardi di anni luce, esattamente lo stesso valore che viene attribuito alle dimensioni attuali dell’Universo.

Esistono veramente i buchi neri? Quale meccanismo potrebbe generare concentrazioni di materia tanto grandi? Abbiamo visto che per trasformare la Terra in un buco nero sarebbe indispensabile comprimerla applicando su di essa forze esterne; perché una stella diventi un buco nero le forze necessarie sono fornite dalla stella stessa. Quando stelle molto grandi, diciamo dieci volte la massa solare, hanno bruciato tutto il combustibile che avevano a disposizione, attraverso le reazioni nucleari, esse non sono più in grado di bilanciare la spinta verso l’interno della propria gravità e quindi vanno incontro ad uno degli eventi più violenti che si possano verificare nel mondo fisico: le stelle scoppiano lanciando nello spazio il materiale esterno mentre il nucleo centrale potrebbe dare origine ad un buco nero.

Le stelle che terminano la loro esistenza con una grande esplosione sono dette supernove e se la massa residua dell’esplosione è almeno 3,2 masse solari questa si contrae per divenire un buco nero. Le stelle molto grandi che terminano la loro esistenza come supernove sono molto più numerose di quanto si potrebbe pensare. È vero infatti che nella nostra galassia l’ultima esplosione di una supernova si è verificata nel 1604 ma gli astrofisici calcolano che questo fenomeno dovrebbe realizzarsi all’interno di una galassia mediamente tre volte per secolo. Se ora si considera che la nostra esiste da dieci miliardi di anni e che le stelle di grande massa sono molto numerose e hanno vita breve perché consumano in fretta il loro combustibile nucleare, sembra ragionevole supporre che nella Via Lattea si siano formati, in questo lungo lasso di tempo, milioni e forse miliardi di buchi neri.

Gli astrofisici ritengono che buchi neri di grandi proporzioni si potrebbero formare dal collasso non di una singola stella ma di un intero ammasso stellare. Le regioni caratterizzate da notevole concentrazione di stelle sono il centro delle galassie e gli ammassi globulari e in quei luoghi si dovrebbero trovare dei superbuchi neri. Un ammasso globulare può contenere, raggruppate in una sorta di sfera di densità relativamente elevata, fino a qualche milione di stelle tutte in moto più o meno casuale. In seguito alla reciproca attrazione gravitazionale le stelle non possono sfuggire, tuttavia capita ogni tanto che qualcuna di esse acquisti una velocità tale da consentirle di abbandonare l’ammasso. Succede allora quello che avviene quando le molecole più veloci abbandonano un liquido caldo: le rimanenti sono mediamente più lente e il liquido più freddo. Allo stesso modo le stelle che rimangono nell’ammasso dopo che sono sfuggite le più veloci sono più lente e quindi tendono a concentrarsi fino a produrre un collasso generale e di conseguenza un buco nero supermassiccio. Questi superbuchi neri naturalmente non sono visibili ma si conoscono molti ammassi globulari all’interno della nostra galassia, alcuni dei quali presentano un grande affollamento di stelle verso il centro determinato forse dall’attrazione generata da un buco nero in formazione.

Un altro luogo in cui le stelle stanno molto vicine fra loro è il centro delle galassie e anche qui potrebbe essere presente un superbuco nero. Ogni galassia, compresa la nostra, dovrebbe quindi avere al centro un enorme buco nero il quale con la sua presenza condizionerebbe il movimento delle stelle che stanno intorno, così come il Sole condiziona il movimento dei pianeti. Un eventuale buco nero di grandi dimensioni al centro della Via Lattea non è visibile non solo per le sue caratteristiche intrinseche, ma anche per la presenza in quella zona di polveri e di gas che rendono impossibile individuare con i mezzi di cui attualmente si dispone qualche particolare effetto dovuto alla presenza del massiccio corpo celeste.

Più facile sarebbe scoprire un buco nero di grande massa al centro di un’altra galassia; sembra infatti che alcuni astronomi americani e inglesi siano riusciti ad individuare qualche cosa di notevolmente pesante al centro di una galassia ellittica confrontando il moto molto perturbato delle stelle vicine al centro con quello di una galassia simile in cui il movimento delle stelle appare molto più regolare.

Forse anche i quasar, oggetti che sembrano stelle (la parola “quasar” è l’acronimo di quas(i) (stell)ar (radio source) = radiosorgente quasi stellare) ma che sprigionano un flusso di energia superiore a quello di un’intera galassia, potrebbero contenere nel loro centro dei colossali buchi neri. Proprio la scoperta di questi misteriosi oggetti celesti, avvenuta agli inizi degli anni Sessanta dell’altro secolo, convinse gli astronomi di prendere sul serio la possibilità dell’esistenza dei buchi neri.



3. L’OSSERVAZIONE DEI BUCHI NERI

Abbiamo visto che i buchi neri sono oggetti celesti che divorano ogni cosa senza mai emettere nulla. Non deve essere quindi molto piacevole trovarsi nelle vicinanze di uno di questi mostri famelici anche perché a mano a mano che essi assimilano dall’esterno nuova materia si ingrandiscono e di conseguenza ampliano il loro raggio d’azione. Corriamo realmente dei rischi?

Vediamo. Il buco nero che eventualmente si trovasse al centro della nostra galassia disterebbe da noi 30.000 anni luce, una distanza che dovrebbe lasciarci tranquilli. L’ammasso globulare più vicino a noi si trova nell’agglomerato di stelle noto come Omega Centauri a 22.000 anni luce ed anche questa è una distanza di tutta sicurezza. I buchi neri che si trovano al centro delle altre galassie o nelle lontane quasar ci lasciano del tutto indifferenti.

Quelli che abbiamo analizzato finora sono tutti superbuchi neri, ma poi vi sono i buchi neri di dimensioni stellari i quali sono molto più numerosi dei primi ed anche presumibilmente più vicini a noi. Per definizione un buco nero è invisibile. Come possiamo fare per rintracciare questi corpi celesti? Essi non solo non emettono luce ma nemmeno altre radiazioni simili, è pertanto impossibile localizzarli attraverso le onde elettromagnetiche. Vi sono tuttavia le onde gravitazionali che sono emesse da masse accelerate così come quelle elettromagnetiche sono prodotte da cariche elettriche in moto. Le onde gravitazionali nel loro aspetto corpuscolare si chiamano gravitoni così come gli aspetti corpuscolari delle onde elettromagnetiche si chiamano fotoni. I gravitoni però, anche se emessi da corpi molto massicci sono alcuni milioni di miliardi di volte meno energetici dei fotoni e quindi non è facile intercettarli: si calcola che fra tutti i corpi celesti solo alcune pulsar o i buchi neri più massicci potrebbero esprimere una potenza gravitazionale rilevabile. I buchi neri, però, oltre che massicci sono anche molto lontani e quindi l’energia liberata dovrebbe arrivare agli apparecchi di rilevazione attenuata così come attenuata arriva la luce di galassie molto lontane.

Un tentativo di intercettare i gravitoni fu compiuto verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso dal fisico americano Joseph Weber (1919- ) il quale sistemò alcuni grandi cilindri di alluminio a centinaia di kilometri di distanza l’uno dall’altro. Questi oggetti avrebbero dovuto subire leggere compressioni ed espansioni causate dall’arrivo di onde gravitazionali le quali sono anch’esse fonti di gravità. Al termine dell’esperimento il fisico americano dichiarò di essere riuscito ad intercettare onde gravitazionali provenienti dal centro della Galassia dove si starebbero verificando eventi di straordinaria violenza. L’esperienza di Weber venne ritentata più volte da altri fisici ma sempre con risultati negativi e quindi il metodo fu abbandonato.

Nemmeno la ricerca di effetti causati da lente gravitazionale ha dato i frutti sperati. Il metodo è il seguente: se sulla linea che congiunge una galassia lontana alla Terra si trovasse un buco nero che con la sua presenza incurvasse intorno a sé lo spazio, la luce proveniente dalla galassia lontana verrebbe deviata dal buco nero invisibile e fatta convergere in un fuoco con un effetto simile a quello creato da una lente. Se quindi si osservasse una galassia eccezionalmente grande, in rapporto alla sua distanza si potrebbe pensare che fra noi e la galassia lontana potesse esserci un buco nero. Fino ad ora non è stato osservato alcun fenomeno del genere.

Vi è infine un’altra osservazione che potrebbe metterci sulla strada giusta per individuare la presenza di un buco nero: essa sarebbe generata dall’effetto che la materia la quale sta intorno al buco nero produrrebbe cadendo in esso. Se nelle vicinanze del buco nero vi fosse della materia questa finirebbe per precipitare nel buco nero e, seguendo una traiettoria a spirale, si riscalderebbe enormemente con conseguente emissione di raggi X. In verità se nel buco nero cadesse un po’ di polvere interstellare non si vedrebbe nulla ma se vicino al buco nero vi fosse una stella di grandi dimensioni in esso precipiterebbe molta materia e la produzione dei raggi X sarebbe tale da poter essere rilevata anche a notevole distanza.

L’astronomia dei raggi X è uno fra i grandi progressi tecnologici compiuti in anni recenti. Poiché i raggi X non penetrano nell’atmosfera terrestre, queste osservazioni devono essere fatte dallo spazio per mezzo di speciali telescopi trasportati da satelliti artificiali. Nel dicembre del 1970 fu lanciato da una piattaforma dell’Oceano Indiano uno dei tanti satelliti della serie Explorer battezzato Uhuru (che nella lingua parlata dal gruppo bantu che abita le aree costiere del Kenia significa “libertà”). Il satellite Uhuru con a bordo un telescopio a raggi X era il risultato dell’impegno dell’italiano Riccardo Giacconi (1931- ) premio Nobel per la fisica nel 2002 e del suo team della Harvard University. Le osservazioni, protrattesi per un tempo molto più lungo di quello realizzato in precedenza con l’utilizzo di razzi e palloni sonda, permisero di costruire una mappa del cielo molto dettagliata e precisa.

Raggi X vengono emessi anche dalle pulsar ma in tal caso gli impulsi sono regolari mentre quelli provenienti da un buco nero presenterebbero variazioni irregolari. Nel 1965 venne localizzata nella costellazione del Cigno una sorgente di raggi X che fu battezzata Cygnus X-1. Successivamente venne individuata nei pressi di Cygnus X-1 una stella molto grande e molto calda che sembra essere il rifornitore di materia al buco nero. Da allora sono stati osservati altri sistemi binari nei quali una stella della coppia potrebbe essere un buco nero, ma non tutti gli astronomi sono di questa opinione.

A che distanza dal nostro pianeta potrebbe trovarsi un buco nero di dimensioni stellari? Se questi oggetti all’interno della nostra galassia fossero distribuiti come lo sono le stelle essi sarebbero più numerosi nella zona centrale, dove vi è un maggiore addensamento di stelle, e più rari nelle braccia a spirale, dove le stelle sono più rarefatte e dove è anche ubicato il nostro sistema solare. In questa zona il buco nero più vicino a noi potrebbe trovarsi a qualche centinaio di anni luce, una distanza anche questa che dovrebbe lasciarci dormire sonni tranquilli.



4. I MINIBUCHI NERI

Abbiamo visto che la teoria della relatività generale prevede che possano esistere buchi neri praticamente di qualsiasi grandezza purché la massa non sia inferiore a 10- 5 g (un granellino di polvere). Ma che cosa potrebbe comprimere oggetti molto leggeri fino a ridurli a minibuchi neri? Non certo il loro campo gravitazionale.

L’idea che nella primissima fase di vita dell’Universo le enormi pressioni e temperature esistenti avrebbero potuto produrre qua e là buchi neri di tutte le dimensioni anche pesanti pochi grammi fu avanzata dal fisico inglese Stephen Hawking nel 1971. Non vi sono prove a favore della presenza di minibuchi neri primordiali ma se questi esistessero è molto probabile che oggi il loro numero possa essere assai maggiore di quello dei buchi neri di dimensioni stellari (è noto infatti che fra ogni classe di corpi celesti le varietà minori sono più numerose di quelle maggiori). È bene dire subito che non tutti gli astronomi sono d’accordo con l’ipotesi di Hawking ma coloro che ritengono verosimile l’idea del fisico inglese vedono minibuchi neri disseminati in ogni dove.

Alcuni astrofisici pensano che buchi neri grandi quanto un protone potrebbero stare all’interno dei pianeti e quindi anche della Terra. Un minibuco nero al centro del nostro pianeta giustificherebbe con la sua presenza l’alta densità ivi esistente e non sarebbe necessario formulare l'ipotesi della materia solare indifferenziata o del nocciolo massiccio di ferro e nichel. I buchi neri, come abbiamo visto, catturano materia da ciò che sta loro intorno, ma in questo caso è possibile che l’oggettino invisibile possa essersi scavato una nicchia nel cuore della Terra e quindi accrescersi ad un ritmo molto lento corrodendo in modo impercettibile il pianeta, come fa un parassita con il suo ospite.

Alcuni geofisici si spingono oltre e immaginano la presenza di mini buchi neri anche sotto la crosta terrestre, il che giustificherebbe l'esistenza dei cosiddetti pennacchi (plume in inglese) cioè quelle colonne relativamente stazionarie di materiale incandescente che generano in superficie del pianeta vulcani detti di “punto caldo”. I punti caldi sono luoghi della superficie terrestre che rimangono fissi mentre le placche scivolano lentamente su di essi. Di tanto in tanto nei suddetti punti si formano dei vulcani che rimangono attivi fino a quando, superato il punto caldo, non si estinguono. L’arcipelago delle Hawaii si sarebbe formato in corrispondenza di un punto caldo e il vulcano posto sull’isola maggiore, proprio perché di formazione recente, è ancora attivo. Minibuchi neri effettivamente potrebbero produrre calore sufficiente a giustificare la formazione di punti caldi, ma la loro presenza è poco credibile perché un buco nero seppure di minime dimensioni posizionato vicino alla superficie sprofonderebbe immediatamente al centro del pianeta.

Secondo gli scienziati esperti di fisica terrestre esisterebbe anche un metodo per convalidare la presenza di minibuchi neri all'interno del nostro pianeta: essi dovrebbero emettere neutrini. In verità di recente (luglio 2005) un gruppo di scienziati, di cui fa parte anche il fisico italiano Giorgio Gatta, ha progettato uno strumento in grado di identificare i neutrini provenienti dal nucleo terrestre. L'esperimento ha segnalato effettivamente un flusso di neutrini (più precisamente antineutrini) che potrebbe avere avuto origine al centro della Terra. I fisici ritengono tuttavia che la fonte di tali particelle sarebbe il decadimento radioattivo di uranio e torio: un fenomeno che non ha attinenza alcuna con i minibuchi neri.

Alcuni fisici, anziché ritenere che si adagino all'interno del pianeta, pensano che i piccoli buchi neri possano entrare in collisione con esso: il loro passaggio attraverso l’atmosfera e la Terra stessa produrrebbe effetti spettacolari che non potrebbero passare inosservati. Qualcuno però ritiene che, invece che sotto i nostri occhi, l’evento devastante di un tale urto possa essersi verificato in passato.

Nell’estate del 1908 nella regione di Tunguska, in Siberia, ebbe luogo un fenomeno che è stato sempre considerato conseguenza dell’impatto di un grande meteorite; nella zona, su di una superficie di molti kilometri quadrati, tutti gli alberi risultarono abbattuti e il bestiame ucciso, ma in quel luogo non furono trovati crateri o resti di meteoriti. Fra le tante ipotesi avanzate (compresa la caduta di un’astronave pilotata da extraterrestri!) vi è anche quella recente di un minibuco nero entrato in collisione con la Terra. Dopo l’impatto nella zona della Siberia centrale il minibuco nero avrebbe attraversato il pianeta e quindi sarebbe uscito dalla parte opposta notevolmente ingrandito per proseguire il suo viaggio nello spazio. Abbiamo prove di tutto ciò? Nemmeno una: si tratta, come per tutte le altre ipotesi che sono state avanzate, di pura speculazione.



5. LE ULTIME FRONTIERE DEL PENSIERO

Ma i buchi neri non hanno mai smesso di creare sorprese. Come molti sanno, la meccanica newtoniana (e anche quella quantistica) non ha una preferenza per la direzione del tempo. Se ad esempio si girasse un film dei pianeti che orbitano intorno al Sole e poi lo si proiettasse alla rovescia il movimento contrario obbedirebbe alla teoria gravitazionale di Newton tanto quanto quello originale ed esso potrebbe anche essere il movimento effettivo di pianeti di qualche lontano sistema solare.

Il fatto che alcune leggi della fisica siano simmetriche rispetto al tempo ha indotto alcuni scienziati a pensare che se esistono i buchi neri dovrebbero esistere anche i buchi bianchi, cioè oggetti celesti da cui possono uscire materia ed energia, mentre né questa né quella potrebbero entrarvi. Se, analogamente a ciò che abbiamo visto per i pianeti che girano intorno al Sole, filmassimo un buco nero e poi proiettassimo la pellicola all’indietro, quello che vedremmo sarebbe un buco bianco, cioè qualcosa che all'implosione sostituisce l'esplosione. Se le cose stanno in questi termini la materia che entra in un buco nero potrebbe uscire da un buco bianco sistemato in un luogo lontano del nostro o anche di un altro Universo. Questo sarebbe un metodo ideale per fare lunghi viaggi nello spazio qualora, almeno teoricamente, si potesse specificare che cosa diventi la materia inghiottita da un buco nero. Si tratta comunque di argomenti adatti più a scrittori di fantascienza che a fisici.

Esaminando le implicazioni fisiche di un fenomeno come quello dei buchi bianchi alla luce della teoria della meccanica quantistica che include il principio di indeterminazione, il fisico inglese Stephen Hawking giunse alla conclusione che questi astri inconsueti non dovrebbero essere così neri come si era sempre pensato ma dovrebbero emettere particelle e radiazioni ad un ritmo costante: dovrebbero, in altri termini, lentamente evaporare.

Il principio di indeterminazione stabilisce che è impossibile misurare con esattezza assoluta la posizione e la velocità di una particella elementare: con quanta maggiore precisione si tenta di misurare la posizione di una particella, tanto meno esattamente se ne potrà misurare la velocità, e viceversa. E questa mancanza di precisione assoluta varrebbe anche per altre grandezze fisiche complementari, come ad esempio energia e tempo. Ciò implica che nei processi subatomici potrebbe essere violata qualsiasi legge fisica.

Vediamo allora in che modo da un buco nero potrebbero evadere particelle elementari e radiazione. Il principio di indeterminazione di cui si è detto consentirebbe ad esempio alle particelle di viaggiare per brevi tratti ad una velocità superiore a quella della luce: se la direzione fosse quella giusta qualche cosa di materiale potrebbe uscire da un buco nero alleggerendolo. Lo stesso principio prevede che si potrebbero materializzare coppie di particelle di materia ed antimateria in un luogo qualsiasi dell’Universo (quindi anche in luoghi dove si ritiene non vi sia alcunché) ma queste particelle subito dopo essere apparse dovrebbero sparire per non violare la legge di conservazione di massa ed energia. La meccanica quantistica prevede quindi che anche nello spazio vuoto vi sia una continua creazione e distruzione di particelle virtuali (così chiamate perché non possono essere osservate direttamente come avviene invece per quelle reali).

Hawking verso la fine del 1973 scoprì che se le particelle virtuali si formassero nei pressi dell’orizzonte degli eventi una delle due potrebbe essere catturata dal buco nero e finire al suo interno, mentre l’altra sarebbe libera di volare via. L’energia necessaria per questa operazione verrebbe fornita dallo stesso buco nero che la sottrarrebbe a quella gravitazionale. Se un buco nero perde energia (e quindi massa per E=mc2) pian piano evapora. Questa lenta evaporazione conseguente alla fuga di particelle subatomiche fa sì che il buco nero si comporti come un corpo ad alta temperatura che si innalza ulteriormente a mano a mano che l’oggetto celeste perde materia. Tuttavia i calcoli mostrano che i buchi neri di grandi dimensioni presentano una temperatura piuttosto bassa e perdono materia con lentezza esasperante tanto che perché essi evaporino completamente ci vorrebbero miliardi di miliardi di miliardi… di anni (1066 anni per un buco nero della massa del Sole); nel frattempo però essi reintegrerebbero la massa perduta assorbendo altre particelle e divenendo in definitiva sempre più grandi e non più piccoli.

Le conseguenze dell’evaporazione sarebbero invece diverse per i minibuchi neri da cui le particelle sfuggirebbero in abbondanza. In quest’ultimo caso si è calcolato infatti che il rimpicciolimento e il conseguente riscaldamento faciliterebbero l’evasione di un sempre maggior numero di particelle, tanto che la fase finale dell’evaporazione procederebbe così in fretta da concludersi con una tremenda esplosione. Questa esplosione finale produrrebbe una grandissima quantità di raggi gamma ad alta energia che potrebbe facilmente essere registrata perché genererebbe nell’atmosfera una pioggia di coppie elettroni-positoni che provocherebbero a loro volta un lampo di luce rilevabile da terra. Si calcola che molti minibuchi neri primordiali abbiano avuto il tempo nei 15 miliardi di anni di vita dell’Universo di evaporare completamente ma ne rimarrebbero in vita ancora molti alcuni dei quali sarebbero molto vicini alla Terra: ve ne potrebbe essere uno alla distanza a cui si trova Plutone, l’ultimo pianeta del sistema solare.

Per concludere dobbiamo accennare ad una questione di non secondaria importanza. Come abbiamo visto, attualmente i buchi neri inghiottono tutto ciò che ad essi si avvicina, ma forse non è sempre stato così. All’inizio dei tempi nell’Universo la materia era disposta in modo uniforme e regolare ma poi, secondo meccanismi ancora inspiegabili, si produssero numerosi addensamenti locali. Questi accumuli di materia potrebbero essere stati favoriti proprio da minibuchi neri formatisi in grande quantità durante il big bang: essi, fungendo da nucleo, avrebbero aggregato i gas dispersi in stelle. Successivamente i buchi neri di dimensioni maggiori avrebbero attratto le stelle raggruppandole in galassie. Per avere la prova di questa ipotesi si dovrebbe poter osservare i minibuchi neri e quelli supermassicci che stanno al centro della nostra e di altre galassie. La cosa, come abbiamo visto, non è per nulla facile.

fine
http://www.cosediscienza.it/astro/16.%20I%20BUCHI%20NERI.htm

VITA E MORTE DELLE STELLE-SECONDA PARTE

8.IL DIAGRAMMA DI HERTSPRUNG E RUSSEL

Prima di vedere come sia possibile, con i dati a disposizione, descrivere l'evoluzione delle stelle dal momento della loro nascita a quello della morte, è opportuno accennare brevemente alla scoperta che ha permesso di trattare, in termini scientifici, questo argomento.

L'astronomo americano Henry Norris Russel, proseguendo gli studi intrapresi dal collega danese Ejnar Hertsprung, scoprì, agli inizi del Novecento, che esisteva una relazione molto semplice che legava la luminosità assoluta di una stella al suo colore.

La luminosità assoluta è una grandezza che esprime la reale luminosità di una stella e non quella che appare all’osservazione. In cielo, come è facile verificare, vi sono stelle molto luminose e stelle poco luminose. Questa differenza di luminosità potrebbe dipendere dalla distanza a cui si trova la stella oltre che dall’energia effettivamente liberata. La conoscenza della distanza consente di stabilire la loro luminosità assoluta o intrinseca, cioè la luminosità che deriva unicamente dalla reale produzione di energia.

Il colore di una stella, come già sappiamo, dipende invece dalla temperatura superficiale: le stelle più fredde hanno colore rosso, quelle più calde presentano un colore bianco azzurro. Si è provveduto quindi ad una classificazione delle stelle anche in funzione del colore dividendole secondo il cosiddetto «tipo spettrale», cioè in pratica secondo un colore ben definito. Le classi individuate sono sette e vengono indicate con una lettera maiuscola. Le stelle azzurre, molto calde, vengono indicate con la lettera O, le altre, al calare della temperatura, appartengono alle classi B, A, F, G, K, M. Il Sole appartiene alla classe G.

Riportando sulle ascisse di un piano cartesiano il tipo spettrale delle stelle, ossia la temperatura (in senso decrescente) e sulle ordinate la loro luminosità assoluta (o intrinseca) si poteva notare che quasi tutte le stelle si disponevano su una linea diagonale che partiva in alto a sinistra del piano cartesiano e terminava in basso a destra. Questa linea obliqua venne chiamata «sequenza principale» ed è formata da stelle che si ordinano spontaneamente in quel modo anche in funzione della loro massa. Le più massicce risultano infatti quelle che brillano di luce bianco-azzurra e si trovano, nel diagramma, in alto a sinistra, mentre quelle meno massicce emettono una fioca luce rossa e si trovano in basso a destra.

Non tutte le stelle, però, appartengono alla sequenza principale: ve ne sono alcune che, nonostante la loro temperatura superficiale piuttosto bassa (motivo per il quale appaiono rosse) emettono tuttavia molta luce in quanto hanno un volume enorme e di conseguenza liberano, da una superficie di notevoli dimensioni, molta luce. Queste stelle, dette giganti rosse, nel diagramma colore-luminosità, occupano sì la posizione a destra, ma in alto invece che in basso.

All'interno dello stesso diagramma trovano sistemazione, questa volta in basso a sinistra, anche le nane bianche. Si tratta di stelle che pur emettendo luce bianca e quindi presentando una temperatura superficiale molto elevata, tuttavia, a causa delle loro dimensioni piuttosto ridotte, emettono poca luce.



9. L'ORIGINE DELLE STELLE

La lettura del diagramma di Hertsprung e Russel ci aiuta a delineare l'evoluzione delle stelle, ma per poterlo utilizzare adeguatamente dobbiamo prima vedere come e quando nascono questi astri.

Riguardo all'origine, vi sono ovviamente due sole possibilità: o le stelle si sono formate tutte insieme all'inizio dei tempi, cioè in pratica quando è nato l'Universo, o le stelle si sono potute formare anche successivamente. In quest'ultimo caso esse dovrebbero formarsi anche attualmente e ciò dovrebbe avvenire in quelle parti del cielo in cui c'è materia disponibile per farlo.

Nella nostra galassia esiste molta materia rarefatta che riempie gli enormi spazi interstellari. Questa materia, a volte, appare un po' più concentrata e si rende visibile o perché viene illuminata da stelle poste nelle sue immediate vicinanze oppure perché impedisce la visione nitida degli astri retrostanti. Questi addensamenti di materia sono abbastanza frequenti, oltre che nella nostra, anche nelle altre galassie, e si ritiene che da essi possano trarre origine le stelle.

Alcune di queste nubi sono di dimensioni enormi e al loro interno contengono, fra le altre, alcune stelle molto grandi e molto luminose che costituirebbero la prova che gli astri si formano proprio a spese del materiale che li racchiude. Sappiamo infatti che le stelle quanto più grandi e luminose sono, tanto più breve è la loro vita perché molto velocemente bruciano il combustibile nucleare di cui dispongono. Da ciò si deduce che le stelle molto grandi che si osservano all'interno delle nubi di gas non hanno avuto il tempo di allontanarsi troppo dal luogo in cui sono nate e pertanto queste stelle dovrebbero essersi formate con il materiale della nube in cui attualmente si trovano.

Sembra quindi verosimile che le stelle, oltre che esistere dall’inizio dei tempi, possano anche originarsi da nubi rarefatte e fredde di gas e polvere che si trovano attualmente all'interno delle galassie: ma in quale modo? Prima di azzardare una risposta è opportuno descrivere brevemente come è nato l'Universo.

Secondo le teorie più accreditate l'Universo sarebbe nato dal nulla, ovvero da quella che viene definita una «fluttuazione quantistica del vuoto» che avrebbe posto in essere un corpuscolo di dimensioni estremamente ridotte (miliardi e miliardi di volte più piccolo di un protone) nel quale però, potenzialmente, era concentrata tutta la materia e tutta l'energia oggi esistente. Può sembrare un’affermazione bizzarra, ma in realtà questa strana origine della materia e dell'energia dal nulla è prevista dalla meccanica quantistica, una teoria che viene utilizzata per spiegare il comportamento piuttosto originale dei corpuscoli di piccole dimensioni, come sono ad esempio gli elettroni e i protoni. Secondo questa teoria il vuoto in assoluto non esisterebbe perché anche là dove non vi fosse nulla di osservabile, potrebbero sempre comparire e scomparire velocemente (senza cioè dare il tempo per una loro registrazione) quelle che vengono chiamate «particelle virtuali», le quali, in determinate condizioni, potrebbero anche concretizzarsi in «particelle reali» (cioè registrabili). Le particelle virtuali appaiono sempre in coppie e subiscono reciproca annichilazione se prima non vengono allontanate per intervento di qualche fatto eccezionale. In tal caso le particelle da virtuali si trasformano in reali.

Secondo la teoria, l'Universo potrebbe quindi essere nato da una particella piccolissima e altamente simmetrica, ossia omogenea in ogni sua parte, prodotta dal cosiddetto «falso vuoto», cioè in una situazione di estrema instabilità. Questa particella effimera e insicura, circa quindici miliardi di anni fa, all'improvviso, ruppe la simmetria che la contraddistingueva e si dilatò a velocità impressionante (molto maggiore di quella della luce) rilasciando tutta l'energia potenziale che stava al suo interno. Questa energia in parte si condensò in particelle elementari e in parte si conservò come tale.

All'inizio, nell'Universo in formazione, le prime particelle reali che comparvero erano quark, elettroni, neutrini e fotoni, ma ben presto i quark si unirono a tre a tre per formare le particelle subatomiche dotate di massa, cioè i nucleoni (protoni e neutroni). Ciò avvenne a seguito dell'espansione e del raffreddamento a cui l'Universo andò incontro immediatamente dopo la nascita.

Mentre l'Universo continuava ad espandersi e a raffreddarsi, i protoni e i neutroni si unirono e formarono i nuclei di idrogeno-2, di elio-3 e di elio-4. Dopo pochi minuti, però, il processo di fusione nucleare si arrestò, perché frattanto le particelle si erano allontanate fra loro in misura tale che gli urti a cui andavano incontro non erano più né frequenti, né efficaci.

Quando l'Universo compì il mezzo milione di anni di vita si era ormai raffreddato al punto da consentire agli elettroni di sistemarsi definitivamente intorno ai protoni e ai nuclei più complessi. In questo modo si vennero a formare gli atomi di idrogeno, di elio e di pochi altri elementi molto semplici, mentre la radiazione, che in precedenza era rimasta intrappolata all'interno della materia, poté finalmente sfuggire e viaggiare liberamente nello spazio.

Possiamo quindi ipotizzare che quando si formarono i primi atomi, la materia e la radiazione fossero uniformemente e simmetricamente distribuite nello spazio, come è attestato, fra l'altro, dall'alto grado di uniformità della radiazione cosmica fossile. Si tratta della notissima radiazione di fondo a 3 K (2,74 K, per la precisione), una radiazione omogenea ed isotropa in quanto proveniente da tutte le direzioni con la stessa intensità che rappresenta il residuo freddo del lampo iniziale che dette inizio all’Universo.

Il gas primordiale uniformemente distribuito nello spazio divenne però instabile quando la spinta prodotta dal big bang iniziale si attenuò e prese il sopravvento l'attrazione gravitazionale. A quel punto si produssero delle piccole fluttuazioni che avrebbero poi innescato quei processi di frazionamento e di addensamento di grandi ammassi di gas che avrebbero originato le galassie. All'intero di queste prime galassie, o protogalassie, attraverso un fenomeno entro certi limiti a­nalogo a quello che dette loro origine, si sarebbero formate successi­vamente le stelle (o, meglio, le protostelle).

A differenza delle protogalassie, in cui il moto rotazionale intorno al centro di massa controbilancia la forza gravitazionale per mezzo della forza centrifuga, le protostelle non possono mai raggiungere uno stato di equilibrio perfetto perché nel loro caso il lento moto rotazionale non è in grado di contrastare l'attrazione gravitazionale che costringe la massa gassosa a contrarsi sempre più. L'energia gravitazionale, a mano a mano che la stella si contrae, si trasforma infatti per metà in energia termica e per l'altra metà in energia elettromagnetica, che viene irraggiata verso l'esterno. Con il passare del tempo, la temperatura della massa stellare va quindi aumentando e con essa aumenta la pressione verso l’esterno la quale, quando raggiunge un valore tale da contrastare quella prodotta dal campo gravitazionale, determina l'equilibrio provvisorio della massa stellare: la protostella, a quel punto, è diventata stella.

Naturalmente anche questo equilibrio è precario perché la stella frattanto continua ad irradiare e di conseguenza a raffreddarsi. Con il calo della temperatura si abbassa naturalmente anche la pressione che dall'interno dovrebbe contrastare la forza gravitazionale. Questo abbassamento della pressione interna produce un'ulteriore contrazione della materia nel centro della stella con il conseguente aumento della sua temperatura. Fino all'inizio del secolo appena concluso, come abbiamo visto, si pensava che proprio la contrazione gravitazionale potesse dar conto dell'energia persa dal Sole per irraggiamento, ma poi si è capito che ciò non poteva essere vero.

La formazione delle prime stelle iniziò, verosimilmente, al centro delle protogalassie dove la condensazione di nuvole di gas doveva essere maggiore che altrove. Fra le prime stelle che si formarono ve ne erano sicuramente alcune molto grandi. Ora, come abbiamo visto in precedenza, le stelle molto grandi hanno una vita piuttosto breve che si conclude con un'esplosione. L'onda d'urto provocata da questa esplosione, produsse, a sua volta, condensazioni di materia tutt'intorno, e quindi l'innesco per la formazione di nuove stelle. La grandissima maggioranza delle stelle (stelle di Popolazione II) ha avuto quindi origine al centro delle galassie ed è stata provocata da onde d'urto provenienti da supernovae. Polveri e gas sono invece rimasti in abbondanza alla periferia delle galassie stesse dove ancor oggi vi è materiale sufficiente per la formazione di nuove stel­le, le stelle di Popolazione I.



10. L'EVOLUZIONE DELLE STELLE

All'inizio la densità di una protostella è molto bassa e così pure la sua temperatura ma, con il progredire del collasso, il nucleo centrale diviene sempre più denso e sempre più caldo. In questa prima fase della sua esistenza, l'astro in formazione sta vivendo ancora a spese dell'energia gravitazionale, ma ben presto, al centro, si raggiungeranno le temperature necessarie all'innesco delle reazioni nucleari. Quando ciò avverrà la nuova stella sarà entrata in possesso di una propria fonte di energia in grado non solo di opporsi alla gravità che tenderebbe a schiacciarla sempre più, ma anche adeguata a reintegrare le perdite dovute all'irraggiamento. L'astro apparirà allora con le caratteristiche tipiche delle stelle della sequenza principale del diagramma di Hertsprung e Russel e in questa condizione rimarrà per il tempo più lungo della sua esistenza.

Il tempo che una protostella impiega per raggiungere il suo assetto stabile dipende dalle dimensioni iniziali. Se la nube iniziale è molto grande questa si contrarrà rapidamente perché notevole sarà la forza di gravità che agisce su di essa e, una volta raggiunta la forma stabile, diventerà una stella bianca o azzurra di grosse dimensioni. Se invece la nube iniziale è di dimensioni più modeste, la stella diventerà una gialla o una rossa della grandezza del nostro Sole o anche meno.

Il nostro Sole (e le stelle simili ad esso), nel primo periodo della sua vita, durato circa 15 milioni di anni, sarebbe passato attraverso una fase detta T-Tauri, dal nome di una stella che è stata osservata per la prima volta nella costellazione del Toro. Durante la fase di T-Tauri, la nube di gas e polvere destinata a diventare stella, perde gran parte della sua materia che si disperde nello spazio attraverso quello che viene chiamato «vento stellare». Si tratta di particelle (in gran parte nuclei di atomi leggeri ed elettroni) che vengono espulse dalla stella e proiettate nello spazio a grande velocità. Gli astronomi ritengono che in questo momento della sua esistenza, intorno al nostro Sole, si sarebbero venuti a formare i pianeti. Ora, poiché molte stelle si trovano attualmente nella fase di T-Tauri, si desume che intorno ad esse potrebbero originarsi sciami di pianeti e satelliti simili a quelli che ruotano intorno al nostro Sole.

Il Sole, come abbiamo detto, possiede le caratteristiche che osserviamo attualmente da circa 5 miliardi di anni e con le medesime rimarrà per altri 5 miliardi di anni, mentre le stelle di dimensioni maggiori si estingueranno molto presto perché consumeranno velocemente le riserve di combustibile. Sappiamo infatti che quanto più grandi sono le dimensioni di una stella tanto maggiore sarà ovviamente la materia da cui essa trae energia, ma tanto più estesa sarà anche la superficie da cui fuoriescono le radiazioni. Ora si calcola che ad esempio una stella tre volte più massiccia del Sole emette circa cinquanta volte più luce e quindi brucia cinquanta volte più combustibile. Una stella tre volte più massiccia del Sole consumerà quindi le sue scorte di combustibile in un tempo che sarà 3/50 di quello impiegato dal Sole per bruciare le proprie. Si è trovato ad esempio che per una stella molto splendente come Sirio la permanenza sulla sequenza principale del diagramma H-R (in posizione comunque più alta rispetto a quella occupata dal Sole), non sarà di molto superiore ai cento milioni di anni.

Le stelle di massa più piccola del Sole consumeranno invece lentamente il loro combustibile nucleare, non raggiungeranno mai temperature molto elevate e stazioneranno nella sequenza principale (in posizione inferiore rispetto al Sole) per tempi molto lunghi.

Quindi, a seconda della grandezza della nebulosa da cui hanno tratto origine, le stelle, dopo aver raggiunto la forma stabile, si sistemeranno sulla sequenza principale in posizione diversa in relazione alla loro massa, e vi rimarranno per tempi più o meno lunghi.

Quando gran parte dell'idrogeno presente nel centro di una stella delle dimensioni all’incirca del nostro Sole si sarà esaurito, la reazione p-p avrà termine e la stella imploderà generando al suo interno temperature molto alte, che consentiranno l'innesco del ciclo di reazioni C-N. Queste reazioni sono molto più energetiche delle p-p e di conseguenza la spinta verso l'esterno diventerà decisamente predominante sulla gravità. La stella allora non sarà più in equilibrio e si espan­derà velocemente divenendo una gigante rossa. A quel punto la nostra stella abbandonerà la sequenza principale e si dirigerà nuovamente verso la zona del diagramma da cui era venuta, cioè in alto a destra.

La stella ora, nonostante abbia una temperatura più bassa, emetterà più calore di prima perché sarà diventata molto grande la superficie da cui esce la radiazione. Il nostro Sole, come abbiamo detto, passerà per questa fase fra circa 5 miliardi di anni. Allora le sue dimensioni diverranno tali da inglobare Mercurio e Venere mentre la Terra, che si verrà a trovare in prossimità della sua superficie, si incendierà come un fiammifero. Se la nostra civiltà non si sarà estinta prima (cosa peraltro molto probabile), in quell'occasione finirà sicuramente ogni possibilità di sopravvivenza dell'uomo e di ogni altro essere vivente.

Una volta raggiunto il massimo dell'espansione, il nostro Sole inizierà nuovamente a contrarsi fino a portarsi un'altra volta sulla sequenza principale, ma in una posizione più alta rispetto a quella occupata in precedenza. In quella posizione, tuttavia, rimarrà per un tempo molto breve in quanto ora la spinta dall'interno non sarà più sufficiente a controbilanciare con efficacia la forza gravitativa che tende a farlo collassare. In seguito al collasso la temperatura nel centro in un primo momento aumenterà, ma poi, dissipato il calore verso l'esterno, diminuirà nuovamente per aumentare un'altra volta in conseguenza di una successiva contrazione e così di seguito per varie volte in un susseguirsi ritmico di variazioni di volume e di luminosità. In altri termini, il nostro Sole diverrà una «variabile». La maggior parte delle stelle variabili che si osserva attualmente in cielo (per esempio le notissime Cefeidi) si trova sistemata proprio nella zona del diagramma colore-luminosità nella quale dovrebbe andarsi a piazzare il Sole fra qualche miliardo di anni.

Durante questa fase di contrazione e dilatazione ciclica, gli strati più esterni della stella potrebbero staccarsi e formare intorno ad essa aloni simili ad anelli di fumo. Queste stelle effettivamente esistono e vengono chiamate «nebulose planetarie», perché, all'osservazione con i telescopi antiquati di un secolo fa, apparivano come dischetti simili a pianeti (con i quali tuttavia, è bene dirlo esplicitamente, non hanno nulla a che fare).

A questo punto della sua evoluzione, una stella come il nostro Sole o anche di dimensioni un po' maggiori, inizia le ultime fasi della sua esistenza. Essa ha ormai quasi esaurito la scorta di carburante atomico e quindi si contrae rapidamente diventando molto densa e molto calda: si forma cioè quella che viene definita una «nana bianca», una stella destinata a spegnersi lentamente. Una nana bianca infatti, non avendo più nulla da "bruciare" molto lentamente si raffredda e da bianca diviene prima gialla, poi bruna ed infine nera. Così finirà il nostro Sole e così finiranno le stelle che gli assomigliano: un corpo piccolo e nero. I tempi necessari per lo spegnimento di una nana bianca tuttavia sono molto lunghi tanto che si ritiene probabile che nelle galassie non si sia ancora formata alcuna «nana nera».

Non sempre però la stella si arrende così facilmente al suo destino. Può capitare, ad esempio, che durante il collasso la nana bianca raccolga materia da una stella vicina (le nane bianche fanno spesso parte di sistemi binari) e che questa materia, costituita soprattutto da idrogeno (gas che è sempre presente sulla parte superficiale di una stella anche quando si è esaurito al suo interno), raggiunta la nana bianca, venga compressa dall'intensa forza di gravità che la piccola stella produce e quindi riscaldata. Il riscaldamento del gas catturato potrebbe continuare fino al punto di raggiungere le temperature suffi­cienti per avviare la reazione p-p. In seguito all'energia sviluppata da questa reazione, la stella produrrebbe un enorme lampo di luce e un'esplosione tale da spingere lontano parte dell'involucro superficiale. Questo è il fenomeno che da Terra viene interpretato come una nova.

Dopo un po' di tempo, nuova materia verrà attratta dalla piccola stella e l'evento si ripeterà: si parla allora di «nove ricorrenti». A causa di queste esplosioni a ripetizione la stella, alla fine, avrà espulso gran parte della sua materia e si sarà ridotta alle dimensioni di una nana bianca non più grande della nostra Luna.

Il Sole non ha le caratteristiche che abbiamo illustrato sopra (esso fra l'altro non fa nemmeno parte di un sistema binario) e quindi dopo che sarà collassato in una nana bianca finirà la sua esistenza in solitudine trasformandosi lentamente in un blocco di materia molto denso e privo di luce, cioè direttamente in una fredda nana nera.

Le stelle molto grandi e quindi molto luminose hanno un'evoluzione diversa da quella appena descritta. Si è osservato che quando una stella ha una massa di 1,4 volte quella del Sole, o maggiore, va incontro ad una fine drammatica e altamente spettacolare. Invece che espellere gradualmente il suo involucro esterno, attraverso esplosioni successive, una stella di grandi dimensioni lo fa in un'unica soluzione per mezzo di una esplosione gigantesca che lancia nello spazio gran parte della materia di cui è fatta: si forma cioè una «supernova». Queste stelle lanciano negli spazi cosmici gli elementi più pesanti dell'elio che si erano nel frattempo accumulati al loro interno e di cui ora esamineremo la genesi.



11. LA FORMAZIONE DEGLI ELEMENTI PESANTI

Abbiamo visto che poco dopo la nascita dell'Universo si formarono i primi nuclei degli atomi più semplici con l'aggregazione di protoni e di neutroni che a loro volta si erano formati assemblando i quark che il big bang aveva prodotto.

I fisici hanno calcolato che quando l'Universo raggiunse l'età di una decina di minuti il 25% della materia presente in esso era costituita di nuclei di elio-4, mentre il rimanente 75% era formato da protoni. In realtà erano presenti anche altre particelle, ma in quantità irrilevante: vi era qualche nucleo di deuterio, qualche nucleo di elio-3 e frazioni insignificanti di nuclei di litio-7.

Dopo la formazione dei nuclei degli elementi più semplici, la temperatura dell'Universo in espansione continuava ad abbassarsi raggiungendo ben presto valori ai quali non vi era più speranza alcuna che potesse formarsi qualche altro nucleo atomico. Quando finalmente l'Universo raggiunse l'età di circa mezzo milione di anni e la temperatura era scesa a circa 3.000 K i nuclei cominciarono a catturare gli elettroni e si formarono i primi atomi stabili. In pratica solo idrogeno ed elio.

Oggi nell'Universo, oltre all'idrogeno e all'elio, che tuttora rappresentano la parte maggiore della materia presente, vi sono tuttavia anche altri elementi (basta guardarsi intorno per convincersi). Sappiamo già che questi si sono formati all'interno delle stelle dove esistono temperature elevatissime paragonabili a quelle che caratterizzavano l'Universo primitivo. Vediamo in dettaglio come potrebbe essere avvenuta la loro formazione.

Quando nel centro di una stella termina la reazione p-p, i nuclei degli atomi di elio che nel frattempo sono diventati molto abbondanti, possono scontrarsi, a tre a tre, e formare il nucleo dell'atomo di carbonio. Questo elemento è indispensabile, come abbiamo visto, per l'innesco della reazione C-N, ma a partire da esso si possono formare anche altri nuclei atomici. Se, ad esempio, ad un nucleo dell'atomo di carbonio si unisce il nucleo dell'atomo di elio, si forma il nucleo dell'atomo di ossigeno. In simboli questa reazione si potrebbe rappresentare nel modo seguente: C-12 + He-4 = O-16. Successivamente l'ossigeno-16 potrebbe reagire con un altro nucleo di elio e formare neon-20; questo, a sua volta, potrebbe catturare ancora un altro nucleo di elio e formare magnesio-24, e così via verso la formazione di elementi sempre più pesanti.

Inoltre, nella zona di confine fra il nocciolo della stella dove lentamente si è andato esaurendo l'idrogeno e la parte più esterna che contiene ancora un po' di questo elemento potrebbero verificarsi reazioni di cattura di protoni da parte degli isotopi pesanti, che in precedenza si erano formati nel nucleo della stella. Per esempio, l'ossigeno-16 potrebbe catturare un protone e formare fluoro-17 il quale a sua volta, per emissione di un positone, potrebbe trasformarsi nell'iso­topo più pesante dell'ossigeno, l'ossigeno-17 (che ha un neutrone in più e un protone in meno del fluoro-17). In questo modo si formerebbero molti isotopi nucleari: per esempio, il sodio-21 dal neon-20, l'alluminio-25 dal magnesio-24 e così via.

Affinché possano innescarsi reazioni nucleari fra nuclei di elementi pesanti e nuclei di elio e di idrogeno è necessario che si realizzino temperature elevatissime. Queste reazioni infatti sono impedite dalla repulsione coulombiana in quanto si tratta di far penetrare, in strutture cariche positivamente (i nuclei degli elementi pesanti), altre strutture cariche anch'esse positivamente (i nuclei degli atomi di elio e i protoni). Con il crescere del numero atomico, diventa sempre più difficile costringere un protone o un nucleo dell'atomo di elio a penetrare fra i molti protoni e neutroni dei nuclei degli atomi pesanti per formarne altri più pesanti ancora.

Però, se sono difficili le reazioni con frammenti di materia con carica positiva, come abbiamo visto, dovrebbero essere più facili le reazioni con neutroni che sono particelle senza carica elettrica. I neutroni vengono prodotti all'interno delle stelle nei modi più svariati. Per esempio, quando un nucleo di carbonio-13 assorbe un nucleo di elio, si forma il nucleo dell'ossigeno-16 e contemporaneamente si libera un neutrone. I neutroni, come si ricorderà, si potrebbero formare anche per la fuoriuscita di un positone da un protone.

Il neutrone, dopo essere stato catturato dal nucleo di un elemento pesante, potrebbe liberarsi di un elettrone e trasformarsi in protone. Il nucleo del nuovo atomo verrebbe allora a trovarsi con un protone in più e un neutrone in meno e quindi sarebbe tramutato in uno degli isotopi dell'elemento a numero atomico maggiore. Tutte queste reazioni avverrebbero all'interno delle giganti rosse, ma ad un certo punto anche esse si interromperebbero. L'arresto si verificherebbe quando la stella si venisse a trovare nella condizione di produrre il ferro.

Fino al momento della produzione del ferro, tutte le reazioni nucleari attraverso le quali sono stati prodotti i nuclei degli elementi pesanti, partendo da quelli più leggeri, erano reazioni esotermiche cioè reazioni che si svolgevano spontaneamente con liberazione di calore. Ora, però, accade che i nuclei degli atomi del ferro (e degli elementi ad esso vicini nella Tabella di Mendeleev) sono molto stabili e quindi non hanno alcuna tendenza a legare a sé altre particelle subatomiche, né a rompersi in frammenti più piccoli: in pratica, non hanno alcuna tendenza a reagire spontaneamente. Pertanto la trasformazione di atomi di ferro sia in atomi più pesanti, sia in atomi più leggeri, invece che produrre richiede energia. La conseguenza di tutto ciò è che la produzione di energia termonucleare, all'interno di una stella, si arresta quando nella stella stessa compare il ferro.

In quel momento non si possono più innescare reazioni che producano energia e quindi non vi è più nulla in grado di opporsi alla forza di gravità che spinge i materiali verso il centro della stella. Avviene pertanto il collasso della stella stessa; la materia si comprime enormemente e la temperatura riprende a salire raggiungendo valori incredibilmente alti. In queste condizioni i nuclei di ferro letteralmente si sbriciolano liberando particelle a, protoni e neutroni che potrebbero anche dar vita a nuove reazioni nucleari se non fosse che so­no stati generati attraverso una reazione endotermica, cioè una reazione che ha prodotto a sua volta il raffreddamento brusco del nocciolo della stella stessa.

La stella quindi collassa velocemente creando, al centro, valori di densità tali da provocare la penetrazione degli elettroni nei protoni con formazione di neutroni. In questo modo, mentre il nucleo della stella si riempie di neutroni, le parti più esterne si riscaldano fino a raggiungere temperature di molti milioni di gradi. Nella zona che circonda il nucleo centrale della stella, vi sono ancora elementi in grado di produrre reazioni nucleari che liberano energia. Queste reazioni, per l'elevarsi improvviso della temperatura, si attivano in tempi brevissimi generando una quantità enorme di calore che la stella non è più in grado di dissipare gradualmente attraverso la sua superficie. Questa allora, da reattore nucleare che produce energia controllata, diventa improvvisamente una vera e propria bomba atomica di dimensioni gigantesche e l'enorme quantità di energia che si libera istantaneamente, provoca la sua esplosione catastrofica. La stella diventa così una supernova.

Durante la fase esplosiva si producono neutroni un po' dovunque e in quantità elevatissima. La presenza di un gran numero di neutroni consente il formarsi, in breve tempo, di elementi pesanti attraverso il processo di cattura degli stessi. Il processo di cattura dei neutroni che si realizza nel momento dell'esplosione di una supernova, è detto «processo r» (o rapido) e porta alla formazione di nuclei eccessivamente ricchi di neutroni e quindi instabili. Questi nuclei però, in seguito ad emissione elettronica, trasformano parte dei neutroni in protoni creando strutture stabili. In tal modo avrebbero origine gli elementi con elevato numero atomico, compresi quelli radioattivi più pesanti dell'uranio.

Al processo di cattura neutronica r si contrappone quello detto s (dalla parola inglese slow che vuol dire lento). Si tratta di un processo di cattura neutronica che avviene in tempi molto lunghi e quindi in situazioni di stabilità della stella. In questo caso, una volta catturato un neutrone, il nucleo, prima di catturarne un secondo, ha tutto il tempo di assestarsi trasformando alcuni neutroni in protoni attraverso l'emissione di elettroni, oppure anche di particelle a.



12. LE NANE BIANCHE

La storia delle nane bianche inizia nel 1844 quando l'astronomo tedesco Friedrich Wilhelm Bessel, dall'Osservatorio di Königsberg (una città che a quel tempo si trovava in Prussia ma che oggi fa parte della Lituania con il nome di Kaliningrad) scoprì che Sirio, la stella più luminosa del cielo, era dotata di un moto proprio.

Bessel per primo determinò la distanza di una stella attraverso la stima della sua parallasse e successivamente si applicò a misurare quella di Sirio osservando gli spostamenti di quest'astro rispetto allo sfondo delle stelle lontane. Raccogliendo i dati egli notò però che Sirio si muoveva in cielo seguendo un percorso lievemente oscillante che mal si conciliava con lo spostamento dovuto all'effetto di parallasse, il quale avrebbe dovuto invece essere lineare. Sirio doveva quindi essere dotata non solo di un moto proprio, ma avere anche vicino una stella che rendeva questo moto leggermente sinuoso.

Tutte le stelle hanno un moto proprio che però appare molto piccolo a causa della loro grande distanza. La stessa cosa accade per un aereo che quando vola molto alto in cielo sembra lento, mentre quando è vicino al suolo lo vediamo muoversi molto velocemente.

L'idea di Bessel che Sirio avesse una compagna era plausibile anche perché, proprio in quegli anni, si era scoperto che solo raramente le stelle sono corpi isolati (come ad esempio il nostro Sole), mentre, molto più di frequente, si tratta di sistemi binari o anche multipli legati fra loro gravitazionalmente. Bessel, in base all'ampiezza delle oscillazioni, calcolò anche che la compagna di Sirio avrebbe dovuto avere una massa ragguardevole, circa la metà di quella della stella principale la quale a sua volta è grande quanto il doppio del Sole. Non essendo però riuscito a vederla, concluse che la compagna di Sirio, se esisteva, doveva essere una stella oscura.

Diciotto anni più tardi, nel 1862, un ottico di nome Alvan Clark, mentre metteva alla prova un nuovo telescopio di sua costruzione, notò, vicino a Sirio, un piccolissimo puntino luminoso che poi si scoprì essere proprio quella «compagna oscura» che Bessel aveva cercato invano. Si trattava in effetti di una stella di magnitudo 11,2, quindi non proprio oscura, tuttavia di luce fioca, cento volte più debole della più debole delle stelle visibili ad occhio nudo. Quella stellina venne battezzata Sirio B, ma qualcuno la soprannominò Cucciolo perché a volte Sirio veniva chiamata Stella-cane (Dog-star), essendo la stella più luminosa della costellazione del Cane Maggiore.

Ora però, poiché la stella appena individuata emetteva poca luce, mentre la sua massa doveva essere molto grande (altrimenti non avrebbe potuto spostare una stella massiccia come Sirio dalla sua traiettoria rettilinea), si era pensato, in un primo momento, potesse trattarsi di una stella rossa a bassa temperatura. Nel 1915, però, l'astronomo americano Walter Sydney Adams, analizzando lo spettro di questo flebile corpo celeste, si accorse che la sua temperatura superficiale doveva essere altissima, almeno quanto quella di Sirio A e quindi doveva emettere luce bianca e non rossa. La nuova scoperta pose allora un interrogativo: se Sirio B è un corpo tanto caldo al punto da emettere luce bianca, per quale motivo è così poco luminoso?

L'unica spiegazione plausibile era che Sirio B fosse di dimensioni molto ridotte. Se un oggetto è molto caldo, ma contemporaneamente ha una superficie molto limitata, esso emette ovviamente poca luce e infatti oggi sappiamo che Sirio B è una stella molto particolare: è un po' più piccola della Terra, ma ha una massa leggermente più grande di quella del Sole. La sua densità media è vicina a 35.000 g/cm³, quindi essa è migliaia di volte superiore a quella della Terra che è di 5,52 g/cm³ e una pallina da ping-pong, riempita con quel materiale, peserebbe 10 quintali. Naturalmente Sirio B come qualsiasi corpo celeste non ha una struttura omogenea e infatti a mano a mano che si procede verso l’interno la densità aumenta a causa del carico sovrastante. La stessa cosa succede per il nostro pianeta che al centro ha una densità ben maggiore di quella delle rocce superficiali. Nella regione centrale il materiale che compone Sirio B raggiunge il valore di 100.000.000 g/cm³ e una pallina da ping-pong riempita di quel materiale peserebbe più di 3.000 tonnellate.

Successivamente furono osservate in cielo numerose stelle del tipo di Sirio B, tutte molto vicine a noi. A queste stelle fu assegnato il nome di «nane bianche» e si è calcolato che nella nostra Galassia ve ne dovrebbero essere svariati miliardi, impossibili tuttavia da osservare direttamente al telescopio date le loro enormi distanze e le esigue dimensioni.

Con la scoperta delle nane bianche ci si trovava di fronte al problema di stabilire di che materiale fossero fatte in quanto non si conosceva, a quel tempo, alcuna sostanza dotata di una così elevata densità. L'enigma venne risolto dal fisico indiano Subrahamanyan Chandrasekhar nel 1930, all'indomani della formulazione della teoria della meccanica quantistica.

A quel tempo già si sapeva che gli atomi sono fondamentalmente degli edifici vuoti in quanto le particelle che li costituiscono (nuclei ed elettroni) sono piccolissime rispetto alle loro dimensioni globali. Il diametro del nucleo di un atomo si aggira intorno a 10-13 cm, mentre quello di un atomo intero è circa 10-8 cm. Un atomo è quindi circa 100.000 volte più grande del suo nucleo. Per farsi un’idea delle dimensioni dell’atomo possiamo immaginare di ingrandirne uno fino a farlo diventare quanto una palestra da cinque o sei mila spettatori: il nucleo di quell’atomo non sarebbe più grande di un grano di pepe e ce ne vorrebbero 100.000 di queste minuscole sferette, collocate l’una a fianco all’altra, per attraversare per lungo la palestra. Ci vorrebbero anche un milione di miliardi (1015) di esse per riempire l’ambiente.

Era quindi ragionevole immaginare che questi atomi, all'interno di stelle molto piccole ma molto massicce, sottoposti a pressioni enormi, potessero venire frantumati e schiacciati fino a ridurre notevolmente gli spazi fra i nuclei centrali e gli elettroni periferici. La materia, ridotta in queste condizioni, viene chiamata «degenerata» e la possiamo immaginare come formata da palline di ping-pong schiacciate e a diretto contatto. Lo schiacciamento degli atomi, tuttavia, non avrebbe potuto procedere fino al punto da consentire alle particelle subatomiche di accalcarsi le une sulle altre, perché ciò gli sarebbe stato impedito da un singolare comportamento degli elettroni i quali, entrati in contatto fra loro, oppongono resistenza ad una ulteriore compressione. Si tratta di un comportamento della materia scoperto nel 1925 dal fisico austriaco Wolfang Pauli.

Esso prende il nome di «principio di esclusione» e riguarda le particelle subatomiche (come ad esempio gli elettroni) dotate di una particolare proprietà interna detta «spin». Queste particelle non possono trovarsi tutte insieme in una medesima regione dello spazio, e quindi, in pratica, non possono avvicinarsi oltre un certo limite, perché esiste una forza (che non deve essere confusa con quella elettrica di repulsione) che glielo impedisce. In virtù di questa forza (detta «pressione di Fermi») le nuvole elettroniche che orbitano nelle regioni più esterne degli atomi, se la pressione a cui sono sottoposti è intensa, ma non esageratamente elevata, si avvicinano ai nuclei ma senza collassare definitivamente su di essi. Chandrasekhar calcolò che se la massa di una stella non è troppo grande (per la precisione inferiore a 1,4 masse solari, massa che viene detta «limite di Chandrasekhar») il definitivo collasso gravitativo su sé stessa non avrebbe luogo in quanto sarebbe impedito dalla pressione di Fermi e la stella raggiungerebbe una situazione di equilibrio con i nuclei atomici molto vicini fra loro ma non a diretto contatto. In queste condizioni la materia si troverebbe con i nuclei atomici in grado di potersi muovere liberamente quasi si trattasse delle molecole di un gas: questo stato della materia infatti viene anche detto «gas degenere».

Abbiamo quindi visto che anche nel caso di una densità enorme come quella presente all'interno di una nana bianca i nuclei degli atomi sono tuttavia ancora sufficientemente separati gli uni dagli altri. Ma è possibile comprimere ulteriormente la materia? Se i nuclei e gli elettroni venissero a stretto contatto, tanto da penetrare gli uni negli altri, la densità della materia diverrebbe quasi quanto quella dei nuclei atomici. Una pallina di ping-pong riempita di questa materia peserebbe non 3000 tonnellate come quella piena della materia che si trova al centro delle nane bianche, ma più di 30 miliardi di tonnellate e non ci sarebbe al mondo alcun mezzo in grado di sollevarla e trasportarla. Esistono stelle la cui densità raggiunge quella dei nuclei atomici?



13. LE PULSAR: STELLE DI NEUTRONI

Nel 1844 l'astronomo britannico William Parsons, conte di Rosse, si mise ad ispezionare il cielo nella posizione in cui gli astronomi orientali avevano detto di aver avvistato la supernova nel 1054. In quella zona egli osservò una nebbiolina diffusa che chiamò «Nebulosa del Granchio» (Crab Nebula in lingua inglese) per il suo aspetto, con due protuberanze simili a chele, che ricordava il noto crostaceo.

Successivamente, nel 1920, il famoso astrofisico americano Edwin Hubble, utilizzando il più potente telescopio allora esistente, quello installato sul Monte Wilson in California, scattò una serie di straordinarie fotografie della Crab Nebula in cui si poteva vedere che si trattava di una massa turbolenta di gas (la quale sembrava il prodotto di una tremenda esplosione) e, al centro, una stellina molto debole.

Confrontando queste fotografie con quelle scattate in passato, Hubble notò che le attuali dimensioni della nebulosa erano leggermente maggiori di quelle precedenti. Era evidente che la Nebulosa del Granchio si era espansa e forse il fenomeno era tuttora in atto. Fu infatti possibile misurare la velocità di questa espansione e quindi risalire al tempo in cui la stessa ebbe inizio. I calcoli portarono a stabilire che l'inizio del fenomeno doveva essere avvenuto circa 900 anni prima, cioè proprio intorno alla data in cui nella costellazione del Toro apparve quella stella luminosissima che i cinesi chiamarono «Stella ospite». A quel punto non vi erano più dubbi: la Nebulosa del Granchio non era altro che il residuo gassoso della supernova del 1054.

Per quanto riguarda la stellina centrale, non poteva che trattarsi del residuo della stella originaria esplosa come supernova e in un primo momento si pensò ad una nana bianca, ma poi, in seguito ad una serie di osservazioni e di argomentazioni teoriche, si dovette cambiare idea. Le osservazioni portarono a concludere che la stellina sistemata al centro della Nebulosa del Granchio doveva essere un corpo caldissimo perché emetteva radiazioni di lunghezza d'onda molto breve, quindi ricche di energia, come raggi X e raggi gamma. Questo stesso tipo di radiazione esce anche dai sincrotroni, le apparecchiature di grandi dimensioni utilizzate dai fisici per accelerare, all'interno di forti campi magnetici, le particelle subatomiche cariche di elettricità. Le radia­zioni emesse dalla stellina centrale della Crab Nebula furono chiamate «radiazioni di sincrotrone» e avrebbero potuto essere originate da elettroni ad alta velocità costretti a muoversi all'interno di un campo magnetico molto intenso.

In seguito a questa scoperta ci si convinse che anche le altre supernovae avrebbero dovuto lasciare residui del tipo di quello scoperto nella Nebulosa del Granchio. Si andò quindi alla ricerca di nebulose in zone del cielo in cui erano apparse le supernovae negli ultimi 1.000 anni. In effetti, da tutte queste nebulose, ma pure da altre, presumibilmente corrispondenti a supernovae esplose in tempi molto antichi, provenivano delle radiazioni molto intense del tipo di quelle scoperte nel­la Nebulosa del Granchio, però senza l'evidenza di una stellina centrale.

Il dubbio che la stellina di dimensioni estremamente ridotte ma in grado di produrre enormi quantità di energia non fosse una nana bianca, venne al noto astronomo indiano-americano Subrahamanyan Chandrasekhar, intorno agli anni Trenta. Egli fece notare che le nane bianche che si era riusciti ad osservare e studiare avevano tutte una massa inferiore a 1,4 masse solari. Queste stelle, nonostante la fortissima forza gravitazionale che la loro stessa massa produce, non riescono tuttavia a contrarsi oltre un certo limite perché gli elettroni che si muovono disordinatamente al loro interno glielo impediscono. Ma che cosa sarebbe successo se la massa del residuo stellare in contrazione fosse stata superiore al limite di 1,4 masse solari? Chandrasekhar pensò che se gli elettroni di carica negativa, invece che vagare liberi, si infilassero nei protoni di carica positiva, si otterrebbero delle particelle neutre (i neutroni) che sotto l'effetto della gravità si dovrebbero ammassare per formare una sfera molto più densa di quella rappresentata dalla nana bianca. Queste ipotetiche stelle superdense vennero chiamate «stelle di neutroni» e si pensò che proprio questo tipo di corpi celesti avrebbero potuto rappresentare il residuo dell'esplosione di una supernova. Per farsi un’idea della densità incredibile che regna all’interno di una stella di neutroni si tenga presente che se la Terra venisse compressa fino a convertire tutta la sua materia in neutroni ammassati gli uni sugli altri, essa assumerebbe le dimensioni di una sfera che potrebbe trovare comodamente sistemazione all’interno di uno stadio.

Il Sole e tanto meno la Terra non potrebbero mai trasformarsi in corpi di neutroni. Chandrasekhar calcolò che un astro, per poter evolvere verso una stella di neutroni, avrebbe dovuto essere grande almeno una volta e mezzo il Sole (per la precisione più di 1,4 volte la sua massa). Ma una stella di neutroni è solo il residuo di un corpo celeste molto più grande che ha dato origine ad una supernova. Una supernova doveva quindi essere all'origine una stella tanto grande che, nonostante la perdita durante la fase esplosiva di gran parte della sua massa, ne possedeva ancora a sufficienza così da superare abbondantemente quella del Sole. Ora, stelle tanto massicce sono piuttosto rare, ma si calcolò che se anche ve ne fosse stata solo una su cento, dato il numero complessivo molto alto, le stelle pesanti si dovrebbero contare a milioni anche solo all'interno della nostra Galassia.

Sorse allora il sospetto che al centro della nebulosa del Granchio e di molte altre nebulose, residuo anch'esse di esplosioni di supernovae, vi dovesse essere una stella di neutroni e non una nana bianca come si era sempre ritenuto. Le stelle di neutroni dovrebbero essere corpi celesti estremamente piccoli con un diametro non superiore a poche decine di kilometri e quindi forse quella che era stata vista al centro della Nebulosa del Granchio non era il residuo dell’esplosione del 1054. Quello che si cercava doveva infatti essere di dimensioni molto piccole, e pertanto, a quella distanza, invisibile. Come fare per vedere stelle di dimensioni così piccole?

Nell'agosto del 1967 una giovane astronoma inglese, di nome Susan Jocelyn Bell, facendo uso di una apparecchiatura speciale, notò una periodica emissione di onde radio proveniente da una zona del cielo dove apparentemente non vi erano stelle. Gli impulsi radio si susseguivano ad intervalli molto brevi (poco più di un secondo) e molto regolari, tanto che all'inizio si pensò a segnali lanciati da esseri intelligenti (i fantomatici «omini verdi» dei romanzi di fantascienza). Successivamente però fu chiaro che non poteva trattarsi di segnali prodotti da esseri intelligenti proprio perché erano molto regolari e quindi non davano alcuna informazione e secondariamente perché la produzione di quegli impulsi avrebbe richiesto una quantità di energia miliardi di volte superiore a quella che il genere umano è in grado di produrre. Nessun essere intelligente, se veramente tale, avrebbe potuto dissipare una così grande quantità di energia per lanciare segnali praticamente privi di significato. Non poteva quindi che trattarsi di un astro che subiva mutamenti in modo ciclico. Che tipo di corpo celeste poteva essere?

Si pensò a varie soluzioni, come quella di un corpo che emetteva onde radio e che veniva periodicamente occultato da un altro che gli girava intorno. Si pensò anche che poteva trattarsi di un corpo che girava intorno al proprio asse, rivolgendo periodicamente verso Terra una particolare zona della sua superficie che emetteva radioonde. Infine poteva essere un oggetto che pulsava. A quel tempo si optò proprio per quest'ultima soluzione e il corpo misterioso fu chiamato «stella pulsante» o, in modo abbreviato, «pulsar» (dall’inglese pulsating star).

Oggi sappiamo che le pulsar in realtà sono stelle di neutroni che ruotano molto velocemente su sé stesse formando un intenso campo magnetico che trattiene i corpuscoli carichi elettricamente. Gli altri corpuscoli, quelli senza carica, sarebbero trattenuti dal campo gravitazionale fornito a sua volta di fortissima intensità. Il campo magnetico, però, non riesce a trattenere gli elettroni in corrispondenza dei poli magnetici, da dove gli stessi sfuggirebbero a grande velocità. Gli elettroni che fuggono dalla stella, nel momento in cui rallentano la loro corsa, generano radiazioni che possono venire raccolte da un osservatore posto a Terra tutte le volte che un polo magnetico della stella si affaccia al nostro pianeta. La pulsar sarebbe quindi come un enorme faro (non di luce, ma di onde radio), che appare acceso solo quando è rivolto verso l'osservatore, e quindi non si tratterebbe di stelle pulsanti, come si era pensato in un primo momento, ma di stelle rotanti.

Sappiamo dalla fisica che quando un corpo carico di elettricità accelera o decelera la sua marcia, emette energia sotto forma di radiazioni elettromagnetiche. Gli elettroni che escono da una pulsar decelerano allontanandosi dall’astro e quindi emettono radiazioni, ma non è detto che queste debbano essere necessariamente onde radio. Le radiazioni emesse da una pulsar potevano essere di tutte le lunghezze d'onda e quindi, in particolare, anche radiazioni del visibile, cioè luce.

Si andò quindi a vedere se la piccola stellina di luce molto intensa posta al centro della nebulosa del Granchio non fosse per caso una pulsar ottica. Per verificare se essa si accendeva e si spegneva a brevissimi intervalli di tempo si doveva far uso di apparecchiature adatte. Nel gennaio del 1969 venne puntato verso la stella in oggetto un apparecchio capace di catturare gli impulsi luminosi e si notò che effettivamente quella che era sempre stata ritenuta una nana bianca era invece una stella di neutroni.

Ma perché le pulsar dovrebbero essere stelle di neutroni? La risposta si ottiene attraverso ragionamenti logici. Innanzitutto le pulsar dovrebbero essere oggetti molto piccoli perché solo oggetti molto piccoli possono ruotare a velocità tali da consentire di produrre impulsi elettromagnetici estremamente frequenti. Le pulsar inoltre dovrebbero essere anche molto dense altrimenti la forza centrifuga provocata dalla rotazione vincerebbe la forza di gravità con conseguente disintegrazione. Si è calcolato che per evitare che la stella vada a pezzi in seguito alla rotazione la densità dovrebbe essere di almeno un milione di tonnellate per centimetro cubo (un’enorme petroliera a pieno carico ridotta alle dimensioni di uno spillo), quindi ben maggiore di quella delle nane bianche. Le pulsar pertanto non potrebbero essere nane bianche rotanti, perché queste ultime non hanno la densità richiesta.

Appare così opportuno chiarire come una stella di neutroni possa acquistare una velocità di rotazione tanto elevata. Una stella di questo tipo, come abbiamo visto, si forma in seguito al collasso gravitazionale di un corpo di grande massa che ruota su sé stesso sempre più velocemente a mano a mano che si riducono le sue dimensioni. Si tratta del ben noto principio di conservazione del momento angolare utilizzato anche dalle ballerine le quali, per girare su sé stesse molto velocemente, si imprimono prima una rotazione tenendo le braccia ben larghe e poi le rinserrano al petto di colpo. Si può dimostrare che la velocità angolare di una stella che collassa cresce in proporzione inversa del quadrato del raggio. In pratica, se questo si riducesse di 100 mila volte (come è il caso delle stelle di neutroni), la velocità angolare aumenterebbe di 10 miliardi di volte rispetto al valore di partenza. Se il Sole, ad esempio, potesse diventare una stella di neutroni (ma come abbiamo visto non ne ha la massa sufficiente) il suo periodo di rotazione, che è di 25 giorni, si ridurrebbe a solo due decimillesimi di secondo.

Le stelle di neutroni in rotazione emettono energia dai poli magnetici e quindi dovrebbero diminuire la loro velocità di rotazione. Se ciò è vero, le pulsar giovani dovrebbero avere una velocità di rotazione maggiore rispetto a quelle più vecchie. La stella che si trova al centro della nebulosa del Granchio è senza dubbio una stella molto giovane ed è infatti anche la pulsar più rapida che si conosca. Il periodo di rotazione della pulsar della nebulosa del Granchio è stato misurato con grande precisione e si è potuto constatare che effettivamente aumenta di alcuni milionesimi di secondo all'anno. Lo stesso fenomeno è stato osservato anche su altre pulsar.



14. I BUCHI NERI

Come abbiamo visto, l’esistenza di una stella è determinata dal sottile equilibrio tra la pressione verso l’esterno esercitata dal suo gas reso caldo dalle reazioni nucleari che si realizzano nel nucleo centrale e l’attrazione gravitazionale verso l’interno, dovuta alla sua stessa massa. Quando una stella esaurisce le scorte di combustibile nucleare l’equilibrio, che nel tempo aveva subito vari aggiustamenti, si rompe definitivamente e la stella si raffredda e si contrae. A questo punto il suo destino è segnato.

Se la stella è abbastanza piccola, se cioè le sue dimensioni sono inferiori a 1,4 masse solari, si contrarrà enormemente, ma alla fine riuscirà a trovare una nuova situazione di equilibrio quando l’attrazione gravitazionale verrà bilanciata da una folla di elettroni in continuo movimento: si formerà, in questo modo, una nana bianca che poi lentamente si spegnerà divenendo nana nera. Le stelle di massa maggiore finiranno invece la loro esistenza in modo traumatico e altamente spettacolare esplodendo e lanciando nello spazio gran parte della materia che le costituiva. Questo evento, come sappiamo, viene detto esplosione di supernova e produce immense nubi di gas in espansione originate dagli strati più esterni della stella. Se la massa che rimane dopo l’esplosione è compresa fra 1,4 e 3,2 masse solari essa subisce un collasso gravitazionale alla fine del quale gli elettroni penetrano all’interno dei protoni dando origine ai neutroni. Si forma in questo modo un oggetto molto più compatto e denso della nana bianca: la stella di neutroni. In essa ora sarà la forza nucleare ad arrestare l’opera distruttiva della gravità.

Abbiamo anche visto che per quanto riguarda le dimensioni dei residui stellari i ruoli sono invertiti, nel senso che le nane bianche che si formano a partire da stelle di dimensioni relativamente piccole finiscono la loro esistenza in corpi celesti piuttosto grandi (il Sole si ridurrà alle dimensioni della Terra) mentre le stelle di neutroni che si sono formate a partire da corpi celesti di grosse dimensioni finiranno la loro esistenza in corpi di non più di 20 o 30 km di diametro. La densità media di una nana bianca è di alcune decine di kilogrammi per centimetro cubo, mentre quella di una stella di neutroni è migliaia di miliardi di volte superiore.

Esistono tuttavia nel firmamento stelle di massa ancora maggiore di quella che forma le stelle di neutroni. Qual è la loro sorte?

Nel 1939 il fisico americano J. Robert Oppenheimer aveva calcolato che un corpo di massa notevole (almeno tre volte e mezzo la massa del Sole) avrebbe potuto continuare a collassare senza alcun impedimento, fino a ridursi a zero. Naturalmente si trattava di uno studio teorico perché in pratica non è possibile che la massa di una stella si concentri in un punto senza dimensioni.

Si può però immaginare un collasso di una stella che proceda fino a polverizzare i neutroni e in cui anche la forza nucleare sia costretta a piegarsi alla gravitazione. Si verrebbe a formare un corpo di densità elevatissima tale che il suo campo gravitazionale diventasse così intenso che nulla ne potesse più uscire. Sappiamo infatti che affinché un oggetto possa abbandonare un corpo al quale è legato gravitazionalmente, deve possedere una velocità iniziale maggiore della cosiddetta velocità di fuga.

Per comprendere cosa sia la velocità di fuga di un corpo basta immaginare di lanciare un sasso verso l'alto: il sasso raggiungerebbe una certa altezza, quindi arresterebbe la sua corsa, invertirebbe la marcia e tornerebbe a terra. Se al sasso venisse impressa una forza maggiore procederebbe più velocemente, raggiungerebbe un'altezza maggiore ma poi, come prima, si fermerebbe, invertirebbe la marcia e ricadrebbe a terra. Ciò succede perché la Terra esercita sul sasso una forza (la forza di gravità), che tende a riportare i corpi al suolo. Con l'aumentare dell'altezza la forza di gravità diminuisce di intensità e pertanto un oggetto che si trovasse a notevole altezza risentirebbe in minor misura dell'attrazione gravitazionale terrestre rispetto ad uno di massa uguale che fosse vicino al suolo. Da ciò si deduce che un corpo lanciato verso l'alto, a mano a mano che sale, viene attratto verso Terra con sempre minore forza.

Pertanto, se un corpo venisse lanciato verso l'alto con una notevole velocità iniziale, indubbiamente rallenterebbe gradualmente la sua corsa, ma non è detto che dovrebbe necessariamente fermarsi e quindi invertire la marcia. Infatti, se la sua velocità iniziale fosse superiore a 11,2 kilometri al secondo il corpo non si fermerebbe mai e quindi non tornerebbe più indietro.

La velocità di 11,2 km/s è la velocità di fuga della Terra che può essere definita come la velocità necessaria ad un corpo per sfuggire alla gravità superficiale terrestre ed evitare di ricadere al suolo. E' possibile calcolare la velocità di fuga di qualsiasi altro corpo celeste, in funzione della sua massa e delle sue dimensioni; per esempio la velocità di fuga della Luna è di 2,4 km al secondo, mentre la velocità di fuga del Sole è 617,7 km/s.

Sappiamo che la velocità massima che può raggiungere un corpo è 300.000 km/s. Questa, in realtà, è la velocità della luce e a questa velocità può viaggiare solo la luce stessa, mentre i corpi materiali (razzi, proiettili o particelle) possono raggiungere, al massimo, velocità leggermente inferiori a questo limite. Ora, se immaginiamo un corpo tanto massiccio e denso da produrre un campo gravitazionale in grado di impedire che da esso possa sfuggire anche un oggetto che possedesse la velocità iniziale di 300.000 km al secondo, da quel corpo non potrebbe uscire nulla, nemmeno la luce.

Un corpo di tal fatta era stato ipotizzato già alla fine del XVIII secolo dal reverendo John Michell e da Pierre Simon marchese di Laplace, i quali, portando alle estreme conseguenze la teoria della gravitazione universale di Newton, immaginarono l’esistenza di una stella di dimensioni enormi la quale avrebbe attratto a sé ogni cosa, compresa la luce. Essi calcolarono che una stella di densità uguale a quella del Sole, ma con un raggio 500 volte maggiore (e quindi con un volume 100 milioni di volte più grande) avrebbe generato sulla sua superficie una forza gravitativa così intensa da impedire alla luce da essa stessa prodotta di uscire. La luce, a quel tempo, veniva immaginata formata da corpuscoli, come aveva suggerito Newton ma successivamente, con il prevalere della teoria ondulatoria, fu lo stesso Laplace a scartare la sua geniale intuizione: un’onda non è un oggetto materiale e quindi non può risentire dell’attrazione gravitazionale.

Oggi sappiamo che stelle grandi come le aveva immaginate Laplace non possono esistere perché collasserebbero sotto l’effetto del loro stesso peso. La qual cosa comunque non altera l’essenza del problema che tuttavia si manifesterebbe solo in oggetti di dimensioni ridotte, ma molto pesanti. Anche la luce, che dopo la teoria newtoniana per lungo tempo è stata considerata un fenomeno ondulatorio, oggi, sulla base della teoria quantomeccanica della materia, si può di nuovo immaginare formata da particelle, i fotoni appunto, corpuscoli senza massa quando sono fermi, ma dotati di energia e quindi con massa quando sono in movimento.

Un corpo con queste proprietà eccezionali viene chiamato «buco nero», anche se in realtà è tutt’altro che un buco: esso è infatti un oggetto molto massiccio e molto denso, che deriva dalla contrazione di un corpo celeste di grandi dimensioni. Per quale motivo allora viene chiamato buco? Il nome gli fu assegnato negli anni sessanta dal fisico americano J. Archibald Wheeler, il quale cercava per questi oggetti una definizione più semplice e di maggior efficacia descrittiva che non fosse quella di “oggetto collassato per effetto gravitazionale”. Egli pensò che l’espressione “buco nero”, che derivò dalla teoria einsteiniana dello spazio, potesse colpire meglio l’immaginazione. Per Einstein lo spazio è una realtà che subisce deformazioni per la presenza in esso di corpi di grande massa. Possiamo immaginarcelo come un telo di gommapiuma sul quale vengono riposte delle sfere di peso diverso. Il telo si affossa, nei punti in cui è poggiato il corpo massiccio, in misura tanto maggiore quanto più è pesante il corpo. Negli affossamenti scivolano i corpi più leggeri che stanno vicino dando l’impressione di venire attratti da quello centrale. Se l'oggetto è molto pesante, esso potrebbe addirittura sfondare il telo di gommapiuma generando uno strappo, un vero e pro­prio buco. Ora, qualsiasi cosa dovesse finire nell'avvallamento e poi nel buco creato dal corpo pesante non riuscirebbe più ad uscire. Allo stesso modo, e fuor di metafora, lo spazio si incurva sempre più per effetto di corpi pesanti fino a creare una voragine che inghiotte ogni cosa e dalla quale nulla può emergere. Ecco perché Wheeler chiamò "buco" l'oggetto molto massiccio; mentre l'aggettivo "nero" si riferisce al fatto che da esso non può uscire la luce, né qualsiasi altra radiazione elettromagnetica.

Abbiamo detto che una stella per poter diventare un buco nero dovrebbe avere una massa notevole. Nella nostra galassia esistono stelle decine di volte più massicce del Sole e naturalmente anche in passato possono essere esistite stelle di questo tipo. Alcune di queste stelle, contraendosi, potrebbero finire come supernovae ed espellere parte del materiale che le costituisce. Se ciò che rimane è più pesante di 3,2 masse solari, invece che una stella di neutroni, dovrebbe formarsi un buco nero. I fisici sono convinti che i buchi neri siano molto numerosi. Ma come fare per individuarli?

Questi strani oggetti celesti sono difficilissimi da scoprire perché non possono essere osservati nel solito modo, dato che non emettono luce né radiazioni di altro tipo. I buchi neri però hanno un campo gravitazionale intensissimo e quindi creano una forte attrazione su oggetti vicini. Verso la fine degli anni Sessanta il fisico americano Joseph Weber dichiarò di essere riuscito a rilevare la presenza di alcuni gravitoni (che sono l’aspetto corpuscolare delle onde gravitazionali, come i fotoni lo sono delle onde luminose) servendosi di alcuni grandi cilindri sistemati nello spazio. La notizia suscitò molto interesse ma anche alcuni dubbi, perché i gravitoni sono corpuscoli molto poco energetici perfino se prodotti dai buchi neri. Furono fatti in seguito vari tentativi di ripetere l’esperimento di Weber ma nessuno con esito favorevole, così che oggi vi è il sospetto che i gravitoni non possano essere individuati.

In genere i corpi celesti sono molto lontani fra loro e il campo gravitazionale di un buco nero, per quanto intenso, non sarebbe in grado di creare un'attrazione sensibile su stelle che fossero lontane da esso alcuni anni luce, però se una stella si trovasse abbastanza vicina ad un buco nero, come succede nei sistemi stellari binari, questo risucchierebbe da essa parte della sua materia carica di elettricità la quale, precipitando a grande velocità sulla sua superficie, emetterebbe radiazioni di varia natura come fanno tutti i corpi elettrici in moto accelerato. Queste radiazioni, osservate da Terra, potrebbero indicare la presenza di un oggetto di quel genere.

Nel 1965 nella costellazione del Cigno è stata individuata una sorgente di raggi X, chiamata Cygnus X-1, che potrebbe indicare la presenza di un buco nero. La cosa non è certa e i fisici procedono con grande cautela perché raggi X vengono emessi anche da altri oggetti celesti. Nelle vicinanze di questa sorgente di radiazione vi è però una stella visibile di grande massa, circa 30 volte quella del Sole, la quale sembra girare intorno a qualche cosa che non esiste.

Cerchiamo di spiegare questa osservazione facendo riferimento al Sole. Che cosa succederebbe se l'astro che ci illumina, all'improvviso, collassasse concentrando tutta la materia di cui è fatto in una sfera di meno di tre kilometri di raggio? Sappiamo che non può farlo, ma in quel caso la forza di gravità alla sua superficie diventerebbe enorme e nemmeno la luce potrebbe evadere. Il Sole, in altre parole, diventerebbe un buco nero e non lo si vedrebbe più. Nulla però cambierebbe rispetto all'attrazione che il nostro astro e­sercita sui pianeti i quali continuerebbero a girargli intorno come fanno attualmente, e non gli finirebbero addosso come qualcuno potrebbe pensare.

Nel 1974 l'inglese Steven Hawking, uno dei più grandi fisici teorici che l'umanità abbia mai conosciuto, suggerì che, in base alle leggi della meccanica quantistica, il destino dei buchi neri potrebbe anche essere diverso da quello immaginato. Fino a quel tempo si pensava infatti che un buco nero fosse lo stadio finale a cui poteva ridursi la materia e che, una volta formato, avrebbe continuato ad esistere per sempre; anzi, in alcuni casi, per la ca­duta in esso di altra materia, avrebbe addirittura potuto accrescersi.

Hawking mostrò invece che la materia potrebbe sfuggire dal buco nero fino a farlo completamente “evaporare”. Per comprendere il fenomeno suggerito dal fisico inglese dobbiamo rifarci al principio di indeterminazione, un principio fondamentale della meccanica quantistica, di cui abbiamo già fatto cenno.

Abbiamo visto che secondo la meccanica quantistica il nulla in assoluto non esiste nel senso che anche dove si ritiene che non possa esserci alcunché, in realtà qualche cosa si potrebbe sempre materializzare. Si tratta della comparsa improvvisa di coppie di particelle (già sappiamo che le particelle compaiono sempre a coppie, ad esempio elettrone e positone insieme). Queste entità però, appena create devono sparire immediatamente, altrimenti verrebbe violato il principio di conservazione della materia-energia: una delle leggi fondamentali della fisica. Particelle che scompaiono appena dopo nate, come si ricorderà, vengono dette "virtuali" per distinguerle da quelle che vivono più a lungo, e che pertanto possono essere osservate per mezzo di adatti rilevatori, le quali vengono dette "reali".

Ora però, se la produzione della particella e dell'antiparticella virtuale avvenisse in prossimità del bordo di un buco nero, la forza di marea creata dallo stesso buco nero potrebbe risucchiare una delle due al suo interno lasciando l'altra senza la compagna con cui annichilirsi. La particella abbandonata all'esterno potrebbe a sua volta cadere nel buco nero oppure allontanarsi rendendosi visibile sotto forma di radiazione. La particella che si allontana dal buco nero non è più una particella virtuale, ma reale e quindi possiede energia. Da dove proviene questa energia? Evidentemente dallo stesso buco nero il quale ha inghiottito una particella che, vista da un osservatore esterno, apparirebbe fornita di energia negativa, cioè di una quantità di energia che, sommandosi con quella positiva dell'astro che l’ha risucchiata, determinerebbe la riduzione dell’energia totale dello stesso buco nero e di conseguenza della sua massa.

Con l'andar del tempo, la massa e il volume del buco nero diminuirebbero sensibilmente e questo rimpicciolimento faciliterebbe l'evasione di altre particelle fino a consumarsi del tutto. I buchi neri però sono oggetti molto grandi e per evaporare completamente dovrebbero impiegare tempi biblici. Si calcola che un buco nero con la massa del nostro Sole impiegherebbe 1066 anni (miliardi, miliardi e miliardi… di anni) per scomparire del tutto. Ma un mini-buco nero lo farebbe in meno tempo e potrebbe evaporare con una velocità tale da emettere quantità notevoli di raggi X.

Alcuni fisici ritengono che dovrebbero esistere numerosi mini-buchi neri, cioè buchi neri dotati di piccola massa e forniti di dimensioni non più grandi del protone, che si sarebbero formati all'inizio dei tempi quando le condizioni fisiche dell'ambiente erano diverse dalle attuali. I buchi neri che si formano attualmente sono di grosse dimensioni perché derivano da stelle di grande massa le quali vengono compresse dal loro stesso peso. I buchi neri di piccole dimensioni dovrebbero derivare da oggetti piccoli come pianeti o asteroidi i quali però attualmente non sono in grado di comprimersi fino al punto di creare densità eccezionali. Queste compressioni invece si sarebbero realizzate, nell'Universo primitivo, per effetto di forze esercitate dal big bang stesso. I buchi neri di piccole dimensioni, ora, dopo 15 miliardi di anni dalla loro formazione, sarebbero in parte evaporati e in alcuni casi anche esplosi. Hawking ha dimostrato matematicamente che un buco nero evapora in tempi tanto più brevi quanto più è piccolo e se il buco nero fosse piccolissimo la reazione di evaporazione si completerebbe attraverso un'esplosione che libererebbe una quantità di energia pari a quella creata dall’esplosione contemporanea di milioni di bombe atomiche.

Realtà o fantasia? Né l'una né l'altra cosa: calcoli eseguiti a tavolino, non suffragati, per il momento, da alcun riscontro sperimentale. Si tenga tuttavia presente che le discipline che hanno il compito di descrivere i fenomeni della natura possiedono una base sperimentale che non può essere trascurata. La scienze naturali, in altre parole, hanno bisogno delle evidenze osservative e sperimentali per poter essere accettate dalla comunità scientifica.

fine



http://www.cosediscienza.it/astro/09.%20VITA%20E%20MORTE%20DELLE%20STELLE.htm