martedì 5 febbraio 2008

LA FINE DEL MONDO

LA FINE DEL MONDO



Quale sarà il futuro e la fine dell’Universo? Dipende dal modello che vogliamo considerare. Se, ad esempio, volessimo prestare fede al modello di Universo stazionario (steady-state universe) di Fred Hoyle la risposta sarebbe che il futuro sarà come il presente e che la fine non avverrà mai, perché l'Universo è eterno.

Nel 1948, a Cambridge, due profughi dall'Austria occupata dai nazisti, Herman Bondi e Thomas Gold, avanzarono una teoria (che in seguito verrà divulgata e ampliata dall'astronomo inglese Fred Hoyle) secondo la quale l'Universo doveva apparire grosso modo sempre uguale a sé stesso in qualsiasi tempo e in qualsiasi punto dello spazio lo si osservasse.

Il modello, chiamato «Universo allo stato stazionario», non escludeva che l'Universo medesimo fosse in via di espansione (come evidenziavano le osservazioni relative al «red shift», cioè allo spostamento verso il rosso delle righe spettrali), ma prevedeva che, a mano a mano che le galassie si allontanavano l'una dall'altra, nuova materia avrebbe dovuto essere creata dal nulla in quantità esattamente sufficiente a compensare la diminuzione della densità causata dall'espansione. Il modello non convinse la comunità scientifica per una serie di motivi, a cominciare dalla impossibilità di controllare la formazione di nuova materia che si sarebbe generata al ritmo di un atomo di idrogeno per metro cubo ogni miliardo di anni.

Se si scegliesse invece il modello del Big Bang proposto da George Gamow nel 1946, allora sarebbe possibile prevedere una fine dell'Universo perché in questo caso ci sarebbe stato un inizio. Il modello del Big Bang prevede infatti che l'Universo sia comparso dal nulla, sotto forma di «particella quantistica», circa 15 miliardi di anni fa e, subito dopo la nascita, abbia cominciato ad espandersi e a riempirsi di materia ed energia.

Come evolverà questo Universo? Innanzitutto occorre precisare che i corpi in esso presenti, col passare del tempo, si raffredderanno sempre più. Si raffredderà la Terra e gli altri pianeti, si raffredderanno il Sole e le altre stelle, si raffredderà ogni cosa. Le stelle però non si comporteranno tutte allo stesso modo: alcune si raffredderanno lentamente e gradualmente, altre lo faranno passando attraverso una serie di processi di trasformazione che ne cambieranno profondamente l'aspetto. Ma alla fine comunque ogni cosa sarà fredda.

Contemporaneamente al raffreddamento dei corpi celesti, si verificheranno delle collisioni che porteranno, in alcuni casi, alla frantumazione dei corpi più grandi in corpi più piccoli e in altri casi alla cattura dei corpi più piccoli da parte di quelli più grandi. Ora, poiché i corpi più massicci, in seguito alla loro aggregazione con quelli più piccoli, aumenteranno ulteriormente la loro massa e quindi il raggio di azione della loro forza gravitazionale, si otterrà l’effetto che i corpi piccoli diminuiranno di numero mentre aumenterà progressivamente la massa di quelli più grandi.

Ogni corpo di piccola massa catturato da uno di massa maggiore, oltre che materia, porta con sé anche energia cinetica (cioè energia conseguente al movimento) che si convertirà in calore al momento dell'impatto. Questo calore dovrà quindi essere smaltito unitamente a quello prodotto dalla stella in seguito alle reazioni nucleari che avvengono al suo interno. Ciò provocherà un ulteriore allungamento dei tempi di raffreddamento.

Le stelle sono delle enormi masse di gas destinate a contrarsi sotto la spinta della forza di gravità da loro stesse generata fino a diventare più piccole dei pianeti, a meno che contemporaneamente, al loro interno, non avvengano le reazioni nucleari di fusione che sviluppano il calore necessario a mantenere espanso il loro volume. Le reazioni nucleari che avvengono nel centro delle stelle consumano idrogeno che si trasforma in elio e in altri elementi più pesanti. Quando la riserva di idrogeno raggiunge certi valori minimi e le reazioni non sono più sufficienti a creare il calore necessario ad opporsi alla forza di gravità, questa ha il sopravvento e la stella collassa direttamente in un corpo più piccolo, se le sue dimensioni sono inferiori o pari a quelle del Sole, oppure esplode prima di collassare, se è di dimensioni maggiori. In quest'ultimo caso il residuo della stella esplosa si trasforma in una pulsar o in un buco nero, cioè in corpi estremamente densi e dotati quindi di una forza di gravitazione intensissima capace di catturare qualsiasi cosa s'avvicini, compresa la luce, nel caso dei buchi neri.

Dopo un certo tempo (diciamo 100 miliardi di anni, tanto per fissare una data), la nostra Galassia, come tutte le altre, sarà piena di stelle collassate che emetteranno poca luce (e non ne emetteranno alcuna nel caso dei buchi neri) e corpi planetari freddi e bui. Tutte queste galassie continueranno a girare su sé stesse come fanno attualmente e ad allontanarsi da tutte le altre se la spinta propulsiva del Big Bang continuerà a prevalere sull'attrazione gravitazionale da loro stesse prodotta.

All'interno di ogni singola galassia continueranno nel frattempo le collisioni e i corpi di massa maggiore attrarranno e cattureranno le polveri residue, i pianeti, i frammenti di corpi celesti e le stelle collassate di piccole dimensioni, diventando in tal modo ancora più grandi. A loro volta questi corpi precipiteranno nei numerosi buchi neri di varie dimensioni che frattanto si saranno formati dall'esplosione delle stelle più massicce. Ogni cosa, alla fine, risentirà dell'attrazione gravitativa del buco nero più grande che dovrebbe trovarsi al centro di ogni galassia. Gli astronomi ritengono infatti che al centro della nostra Galassia e per analogia al centro di tutte le altre, vi sia un enorme buco nero in costante crescita.

Alla fine, l'Universo sarà pieno di galassie trasformate in giganteschi buchi neri in allontanamento reciproco. Questo sarebbe lo scenario finale qualora l'Universo dovesse essere «aperto» cioè in perpetua espansione, e i buchi neri strutture stabili.

Ma forse le cose non andranno così perché l’Universo potrebbe non essere aperto e i buchi neri potrebbero essere strutture precarie invece che stabili. Un tempo i buchi neri erano ritenuti qualche cosa di definitivo da cui nulla poteva uscire quando tutta la materia e l'energia esistente fosse stata catturata. Recentemente però, il fisico inglese Stephen W. Hawking, applicando le leggi della meccanica quantistica, ha scoperto che i buchi neri potrebbero «evaporare», cioè da essi potrebbe uscire materia sotto forma di particelle subatomiche (elettroni e protoni) ed energia sotto forma di fotoni.

Le particelle subatomiche dopo essere uscite dai buchi neri, a loro volta, dovrebbero decadere, cioè trasformarsi. Si sa da tempo che i neutroni, se non sono associati ai protoni, cioè se non sono all’interno dei nuclei atomici, sono instabili e si trasformano, nel giro di pochi minuti, in protoni ed elettroni. Fino a poco tempo fa, tuttavia, si riteneva che i protoni fossero particelle stabili e immutabili, cioè che avessero una vita infinita. Recentemente invece sono state avanzate delle teorie sulle particelle elementari secondo le quali i protoni dovrebbero essere instabili e quindi destinati a decadere, anche se molto lentamente, in positoni, fotoni e neutrini. Se le cose stessero effettivamente in questi termini, gli elettroni superstiti, incontrandosi con i positoni di nuova formazione, dovrebbero annichilarsi producendo energia pura sotto forma di fotoni.

Si calcola che trascorsi 10100 anni (un uno seguito da cinque o sei righe di zeri, praticamente un tempo infinito) l'Universo sarà ridotto ad un'enorme palla piena di fotoni, neutrini ed antineutrini in perpetua espansione. Lo spazio sempre più ampio a disposizione dell'energia e della miriade di corpuscoli di massa insignificante diventerà qualche cosa che assomiglia sempre più al vuoto, proprio a quel vuoto da cui l'Universo avrebbe preso l'avvio. Si può quindi immaginare che in un futuro molto lontano si creeranno quelle condizioni di vuoto assoluto entro il quale le fluttuazioni casuali potrebbero produrre quella particella quantistica che dette inizio, miliardi e miliardi di anni prima, al nostro Universo.

Quindi, se vivessimo in un Universo in continua espansione, l'evento si ripeterebbe, seppure in tempi estremamente lunghi. Ma cosa succederebbe se vivessimo in un Universo «chiuso»?

In un Universo chiuso, cioè in un Universo nel quale prima o poi l'espansione si esaurirà e comincerà la contrazione sotto l'azione della forza gravitazionale, alla fine si dovrebbe assistere al collasso di tutta la materia e di tutta l’energia esistente in una struttura compatta di densità infinita. Si dovrebbe cioè verificare il cosiddetto «Big Crunch», o grande implosione, che porterebbe ogni cosa alla particella quantistica iniziale dalla quale potrebbe scaturire un nuovo Universo e da questo un altro e dopo questo un altro ancora in una successione inarrestabile.

Questo modo di vedere le cose è indubbiamente originale e, se non altro, avrebbe il merito di mettere d’accordo coloro che immaginano l'Universo infinito e quelli che invece lo preferiscono di dimensioni finite.

Ma, a prescindere da questo risultato, che finalmente concilia posizioni antitetiche, quale altro scopo si prefigge l'indagine sul destino ultimo dell’Universo? La risposta è semplice e banale insieme: si tratta di un problema scientifico e l’uomo, per sua stessa natura, è alla ricerca incessante e quasi maniacale di nuovi problemi da risolvere e delle relative soluzioni da proporre. E l’esplorazione di nuovi ambiti, anche in questo caso, ha portato, e inevitabilmente porterà in futuro, a continui progressi nei più disparati settori del sapere che, direttamente o indirettamente, contribuiranno a migliorare la qualità della vita umana.

http://www.cosediscienza.it/tempo/07_fine.htm

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